La pūjā: la Luce della conoscenza dissolve l’oscurità dell’ignoranza


Nell’epoca vedica il sacrificio rituale (yajña), centrale nella pratica religiosa, era volto a garantire la stabilità e l’ordine nell’universo. Nel sacrificio si compie il ciclo della reciproca offerta tra tutte le creature. La vita è sostenuta dallo scambio tra gli esseri, dall’offerta di ognuno nel donare ad altri una parte di sé, dal valore di ogni forma di esistenza. Il rito è il tentativo di porsi in armonia con il ciclo naturale, celebrando eventi fondamentali come il quotidiano sorgere e tramontare del sole, il mutare delle stagioni, il variare delle fasi lunari, la semina annuale e il raccolto.

Lo yajña perpetua il rapporto di inter-dipendenza e inter-funzionalità (quindi evidentemente non contempla una concezione antropocentrica) tra gli esseri, i mondi, il cosmo e Dio. In generale, il sacrificio assume il valore di restituzione, ovvero restituire alla Divinità ciò che di fatto le appartiene, attraverso una ri-costruzione dell’unità originaria. Al sacrificio vedico, nel corso del tempo, si affianca l’atto di adorazione, pūjā, divenuta la prassi religiosa più comune nel tempio. La parola pūjā, che viene tradotta con “adorazione”, “culto”, è composta dalle sillabe pā da cui pāpa, “peccato”, e ja da cui jaya, “vittoria”. Pūjā dunque significa “ciò che sconfigge il peccato”. Vi sono molte forme di pūjā, secondo differenti scopi, anche se il fine più elevato è quello dell’adorazione di Dio senza chiedere, ovvero lo stato di donazione di sé. Se nell’adorazione interiore la ritualistica si trasforma in un processo meditativo, nella pūjā esteriore il complesso viaggio metafisico è compiuto attraverso strumenti simbolici che evocano la Divinità e le sue potenze. La mistica del cibo nella speculazione upanishadica si trasforma e si moltiplica nella potenza del simbolo in una svariata quantità di elementi. Durante lo svolgimento della pūjā, tra le offerte occupano un posto molto rilevante alimenti come frutta, cibo cotto e acque aromatizzate. Alla divinità si rivolgono i gesti gentili dell’ospitalità: l’ospite sacro è invitato nella casa del proprio cuore, a lui vengono lavati i piedi ed è dissetato con acqua pura. Accomodato sul seggio, viene lavato, adornato di profumi, fiori, colori, simboli degli elementi e del cosmo, e altresì deliziato dal dono del cibo e nutrito dai frutti delle nostre azioni. Infine, la Luce della conoscenza dissolve l’oscurità dell’ignoranza. Il Dio, adorato e invocato attraverso la luce che evoca la rimozione dell’ignoranza, discende donando ai devoti la visione, darśana, la contemplazione della divinità.

La pūjā è un rituale di adorazione molto potente che permette di riscoprire la propria identità con Dio. La pūjā può avere effetti sia individuali sia collettivi; sia prettamente evolutivi sia sociali quindi legati alla vita quotidiana. Questi due non si escludono a vicenda potendo verificarsi congiuntamente. Nel primo caso la pūjā aiuta il devoto a purificare la propria mente e i propri sensi fino a condurlo al totale abbandono a Dio. Nel secondo caso, la pūjā genera grandi benefici come la salute, l’armonia, la prosperità, la risoluzione di problemi, il conforto nella sofferenza, la pace, e molti altri ancora. Le offerte per il culto, upacāra, possono variare da un minimo di 5 a 16 oppure 64; e nelle forme più elaborate possono essere anche molte di più. Cibo e acqua sono elementi essenziali della pūjā e gli alimenti offerti sono soprattutto latte, burro chiarificato, yogurt, zucchero, miele, frutta, riso, dolci, spezie e foglie di piante sacre, come tulsī, o betel. Inoltre, vengono usati svariati “cibi cucinati” con appropriati alimenti (cereali, ortaggi e spezie) cari alla Divinità preposta offerti in occasioni speciali, secondo il calendario lunare, come festività, ecc. Naivedya è un’offerta, upacāra, fondamentale che rappresenta il nutrimento per antonomasia: il “cibo cotto” che ha una corrispondenza con il corpo. L’offerta a Dio diventa prasāda. Il termine prasāda che significa “grazia, purezza, dono divino” è il cibo offerto che, dopo essere stato sacralizzato, viene distribuito ai fedeli presenti al rito. Prasāda non è connesso solamente al cibo. È, per estensione, qualsiasi cosa che sia venuta a contatto con la grazia trasformante della divinità: un oggetto portato al tempio o toccato dalle mani di un santo, del Guru. Tutto ciò che si riceve dal Guru è prasāda, perché basta un suo sguardo o una sua parola per beneficiare di un dono per rimuovere l’ignoranza. Questo cibo è capace di produrre in coloro che se ne nutrono una fede salda, profonda forza, equilibrio, amore, energie positive per la salute del corpo e della mente.