Il Tantra come via per l’estasi spirituale 2 parte

Il guru, specie nelle tradizioni tantriche, è ben più che un maestro spirituale. Egli non si limita ad impartire la dottrina al discepolo (śiṣya) come un ordinario maestro potrebbe fare, per quanto accorato e devoto: il guru è come un dio (gurudeva) che grazie alla propria potenza spirituale (śakti) “trasmette” al discepolo la dottrina e gli oggetti della tradizione. Per esempio, un mantra non può essere appreso semplicemente ascoltandolo (né tantomeno apprendendolo da un testo): deve e può solo essere passato dal guru al discepolo (guru śiṣya paramparā). Fra i due si stabilisce una relazione intima che ha i caratteri della riservatezza, della devozione e dell’obbedienza.[86] Va detto che questo stato di cose, questo lignaggio iniziatico, non è esclusivo del tantrismo, bensì comune a tutte le scuole hindu. Nelle tradizioni tantriche alcuni caratteri risultano però ben marcati: la segretezza e la devozione. Come si è accennato, il guru è considerato manifestazione divina, a lui si deve non soltanto obbedienza ma anche devozione nel senso stretto del termine. Per esempio, la gurupādukā, l’impronta dei piedi del guru, va vista come il segno della presenza divina, e come tale adorata e omaggiata.[87] Nelle tradizioni del Kaula (“famiglia”, intesa come insieme di comunità che condividono la medesima tradizione), il rito di iniziazione (dīkṣā) del discepolo alla comunità (cakra; “cerchio”, nel senso di “circolo”, “setta”) è una cerimonia piuttosto complessa. Il guru, quando ritiene essere giunto il momento, comunica al discepolo la decisione di introdurlo nella setta. Viene quindi organizzata una cerimonia con gli altri membri del cakra. Questa comincia con la recitazione di mantra e offerte alla Dea, quindi prosegue con la richiesta ritualizzata del guru al Signore del Cerchio (cakreśvara). Il discepolo viene interrogato e preparato, mentre prosegue l’adorazione alla Dea. L’iniziazione propriamente detta ha luogo con il posizionamento del discepolo su un maṇḍala appositamente tracciato sul suolo; un’aspersione; la trasmissione di un mantra personalizzato; l’imposizione di un nome nuovo; quindi l’iniziato offre doni agli astanti. La cerimonia prosegue con riti che includono il pasto e l’unione sessuale (maithuna).[88] L’iniziato, il tantrikā, continuerà la sua via verso la realizzazione spirituale (sādhana) e un giorno potrà diventare guru egli stesso. Toccherà quindi a lui perpetuare (saṃpradāya) la dottrina, in quella che è una successione di maestri (guru paramparā) che così tramandano la disciplina. Il corpo yogico e la kuṇḍalinī – L’individuo è immaginato possedere una struttura complessa che convive col corpo fisico: è questo il “corpo yogico”[89]. Tale corpo yogico è costituito di canali (nāḍī) e centri (cakra o padma)[90], e in esso gioca un ruolo determinante una potenza non umana bensì divina, la kuṇḍalinī. Lungo uno dei canali principali, la suṣumnā, quello che verticalmente collega la regione perineale con la sommità del capo, la kuṇḍalinī, che normalmente si trova allo stato latente alla base del canale stesso, può risalire, con pratiche adeguate, verso l’alto conducendo così alla liberazione.[91] Il filosofo Kṣemarāja (X-XI secolo), discepolo di Abhinavagupta ed esponente della scuola del Trika[92], nel commentare un passo degli Śivasūtra, così descrive la kuṇḍalinī quiescente: « L’energia sottile e suprema è addormentata, attorcigliata come un serpente; essa racchiude in sé il bindu, e insieme l’universo intero, il sole, luna, astri e mondi. Ma essa è incosciente, come obnubilata da un veleno. » (Kṣemarāja, Śivasūtravimarśinī, commento a II, 3; citato in Lilian Silburn, La kuṇḍalinī o l’energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 76) Bindu è il seme maschile, la scintilla che può risvegliare la kuṇḍalinī. In questo caso bindu è anche simbolo di Śiva in quanto Coscienza.[93] Il corpo yogico, fondamentale in quasi tutte le pratiche meditative e rituali, è ovviamente immateriale, è una struttura somatica inaccessibile ai sensi che l’adepto crea immaginandola, visualizzandola. Del resto molti culti tantrici sono culti visionari. Va qui detto esplicitamente che lo Yoga cui il Tantra fa riferimento non è né il Kriyā Yoga né l’Aṣṭāṅga Yoga presentato da Patañjali nel suo basilare Yoga Sūtra (lo Yoga classico cioè), ma lo Haṭhayoga. Altrettanto esplicitamente va fatto notare che qui non si parla dello Haṭhayoga moderno (occidentale e indiano), invero versione reinterpretata di elementi tradizionali, ma dello Haṭhayoga che risulta dai testi classici, come la Gheraṇḍa Saṃhitā, la Haṭhayogapradīpkā o la Śiva Saṃhitā. Proprio per evitare questa confusione, molti autori preferiscono servirsi del termine “Kuṇḍalinī Yoga”.[94] Secondo una interpretazione classica, il termine haṭha yoga vuol dire letteralmente: unione (yoga) del Sole (ha) e della Luna (ṭha); e questa lettura risponde in pieno alle dottrine tantriche, per le quali la liberazione è il ricongiungimento della śakti, presente nell’individuo come kuṇḍalinī, con l’assoluto, Śiva, immaginato risiedere nell’ultimo cakra.[95] È da notare che in questo simbolismo, Śiva è rappresentato dalla Luna: nell’iconografia classica del Dio, bianco è il colore della sua pelle, bianco come il crescente di Luna che porta fra i capelli, bianco come il colore dello sperma, e sia per “Luna” sia per “sperma” è anche utilizzato il termine soma, il succo sacrificale, e il Dio di cui si parla nei Veda.[96] Molte sono le tecniche che consentono il risveglio della kuṇḍalinī e la sua risalita lungo la suṣumnā[97]. Ne fa una dettagliata esposizione Abhinavagupta nel suo Tantrāloka, vasto trattato sul mondo del tantra ai suoi tempi (X secolo circa). Ecco come il filosofo descrive la risalita dell’energia: « Quando non emette, la kuṇḍalinī assume la forma di pura energia quiescente (śaktikuṇḍalinī). In seguito diventa energia vitale o del soffio (prāṇakuṇḍalinī). Anche giunta al punto estremo dell’emissione, essa rimane la kuṇḍalinī suprema, chiamata brahman supremo, firmamento di Śiva e sede del Sé. I movimenti alterni di emanazione e riassorbimento non sono che l’emissione del Signore. » (Abhinavagupta, Tantrāloka 138-41ab; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l’energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 46) Nella interpretazione dello shivaismo tantrico non dualista, commenta l’indologa Lilian Silburn, Śiva, Essere Supremo, è il soggetto conoscente, l’oggetto conosciuto e la conoscenza stessa, e quindi l’emissione e l’assorbimento della kuṇḍalinī restano emissioni di Śiva. In un testo precedente (IX secolo circa), il Vijñānabhairava Tantra[98] (“Conoscenza del Tremendo”[99]), è presentato concisamente un compendio di tecniche yogiche; qui un esempio di uso del controllo della respirazione per il risveglio della kuṇḍalinī: « Il soffio ascendente esce, il soffio discendente entra, di sua propria volontà, in forma sinuosa. La Grande Dea si estende dappertutto Suprema-Infima, supremo luogo sacro. » (Vijñanabhairava, 152, a cura di Attilia Sironi, introduzione di Raniero Gnoli, Adelphi, 2002) Evoluzione e involuzione – Secondo Swami Nikhilananda, esponente dell’Advaita Vedānta, nelle dottrine tantriche il Satchitananda[100] ha insieme sia il potere dell’auto-evoluzione che quello dell’auto-involuzione. La Realtà fisica (prakṛti) si evolve in una molteplicità di cose ed esseri viventi, eppure al tempo stesso resta pura coscienza, essere e beatitudine; in questo processo di evoluzione, Māyā (“illusione”) nasconde la realtà e la separa in coppie di opposti, come conscio e inconscio, piacevole e spiacevole, e così via. Queste condizioni limitano o restringono l’individuo (jīva) e trasformano la sua percezione in quella di un animale.[101] In questo mondo relativo, Śiva e Śakti sembrano separati; nel Tantra, però, anche durante l’evoluzione, la Realtà resta identica, sebbene il Tantra non neghi né l’atto né il fatto di questa evoluzione. Di fatto, il Tantra afferma che sia il processo di evoluzione universale sia quello individuale sono Realtà, prendendo le distanze sia dal puro dualismo sia dal non-dualismo del Vedānta.[101] Comunque, l’evoluzione o “corrente di uscita” è solo una delle funzioni di Māyā; l’involuzione, o “corrente di ritorno”, riporta il jiva alla sorgente o radice della Realtà, rivelando l’infinito. Si dice che il Tantra insegni il metodo per cambiare il verso della corrente, da quella di uscita a quella di ritorno. Questa idea è alla base di due proverbi tantrici: “ci si deve rialzare con quello che ci fa cadere” e “lo stesso veleno che uccide diventa l’elisir della vita se usato dal saggio”.[101] Pratiche tantriche – Per il tantrikā il mondo è permeato di potenze divine, energie che è possibile manipolare con la corretta esecuzione dei rituali. Il rito tantrico è spesso molto articolato, e implica non soltanto la gestualità e l’oralità, ma anche la visualizzazione interiore. Il coinvolgimento del corpo può essere tale da alterare lo stato di coscienza dell’officiante: non è intatti infrequente assistere a fenomeni di possessione (āveśa).[102] La pratica di culto più comune è la pūjā, l’omaggio a una divinità. Il rituale è sostanzialmente diviso in due parti: la purificazione e divinizzazione del corpo dell’officiante (“culto interiore”); l’omaggio vero e proprio (“culto esteriore”). La prima parte consiste nel rendere il corpo dell’officiante degno di poter eseguire l’omaggio, e prevede pratiche di purificazione con lavacri e mantra, seguito da pratiche di visualizzazione. La seconda parte continua con mantra e pratiche di visualizzazione accompagnate, con variazioni a seconda della divinità, dal rito di adorazione.[103] Esistono poi i riti di iniziazione (dīkṣā), il cui fine è la trasformazione spirituale dell’iniziante, il suo cambiamento di stato ontologico: riti di affiliazione alla setta tantrica; riti di passaggio; riti periodici o di occasione (nainmittika); riti funerari; riti per l’acquisizione di poteri; l’iniziazione a guru (ācārya); l’iniziazione a figlio spirituale (putraka), eccetera.[104] Maṇḍala e yantra – l termine maṇḍala vuol dire letteralmente “cerchio”, nel senso di “ciò che circonda”[105], ed è qui utilizzato per indicare un elemento caratteristico della liturgia tantrica. Esteriormente si presenta come un disegno, o un’incisione, a volte molto complesso, altre volutamente schematico, che basandosi su simmetrie e figure geometriche quali il cerchio, il quadrato e il triangolo, spesso inserisce motivi grafici anche molto elaborati.[106] I maṇḍala non sono affatto una prerogativa del tantrismo, se ne ritrovano infatti anche in altre culture e religioni, e non è tanto nel tantrismo hindu quanto in quello buddhista che i maṇḍala diventano opere vere e proprie, manufatti che richiedono anche mesi per poter essere realizzati. Nel tantrismo hindu è più spesso utilizzato un tipo di maṇḍala più semplice, lo yantra (letteralmente “strumento”, ma anche “amuleto”)[107], volutamente schematico per poter essere disegnato o inciso con facilità. Per i tantrikā il maṇḍala è un’immagine del cosmo e una teofania. In quanto imago mundi possiede un centro, detto bindu, e una geografia costituita di elementi simbolici. In quanto teofania lo yantra è dunque anche oggetto sacro oltre che simbolico, e non assurge soltanto a “dimora” (temporanea) della divinità, ma diventa anche espressione dei significati metafisici di cui la divinità è portatrice. Il maṇḍala, o lo yantra, è utilizzato in diversi modi: può essere tracciato sul suolo, per lo svolgimento di alcune cerimonie che ne prevedono l’uso (come le iniziazioni); può essere disegnato o dipinto su stoffa o inciso su pelle o metallo, per realizzare uno strumento di meditazione o anche di adorazione di una divinità (spesso la Dea) che vi viene fatta temporaneamente discendere.[108] Esistono, inoltre, anche yantra tridimensionali. Così un testo della scuola Kaula: « La differenza fra lo yantra e la divinità che esso simboleggia è simile alla differenza tra un corpo e l’anima che lo abita. » (Kaulāvalīam; in Alain Daniélou, Miti e dèi dell’India, traduzione di Verena Hefti, BUR, 2008, p. 396) Nelle cerimonie di iniziazione il maṇḍala tracciato sul suolo prevede una fascia esterna dal doppio significato: impedire l’accesso ai non iniziati e “bruciare” l’ignoranza che impedisce la conoscenza metafisica. All’interno di questa fascia ve ne è un’altra che simboleggia l’illuminazione, nella cui area sono rappresentate gli aspetti della conoscenza, spesso rappresentati da divinità terrifiche. Segue un’ulteriore fascia che simboleggia la rinascita spirituale, nel cui centro si trova il maṇḍala propriamente detto, sede di una o più divinità.[109] Un’altra applicazione dello yantra la si ritrova nella costruzione dei templi: la pianta di questi infatti è un vero e proprio yantra, e di più, la struttura e le proporzione del tempio stesso non sono opera di architetti, ma sono dettate dai testi sacri, dai Tantra.[110] Mantra – I mantra, che esistono sin dall’epoca vedica, rivestono nelle tradizioni tantriche un’importanza particolare, e per la loro onnipresenza nel rituale, e per il loro senso profondo. Mentre nel brahmanesimo il mantra è l’inno invocato nelle oblazioni o la formula rituale, nel contesto tantrico il mantra si arricchisce di altri significati, divenendo spesso un enunciato privo di senso apparente, denso di “energia”, adoperato anche per scopi magici oltre che religiosi.[111] Spesso, ma non sempre, un mantra è inteso come la forma fonica di una divinità, e quando così, è ritenuto sacro. Ad esempio, il mantra della dea Tripurasundarī è: « HA SA KA LA HRĪṂ, HA SA KA HA LA HRĪṂ, SA KA LA HRĪṂ » Esso è costituito di quindici sillabe ordinate in tre gruppi. Queste sillabe sono poi a loro volta mantra, mantra monosillabici detti bīja (“seme”), ognuno portatore di un particolare significato o essi stessi forma fonica di una divinità, e possono essere raggruppate per costruire così mantra più complessi, come quello riportato nell’esempio.[112] Il bīja SAUḤ è, per esempio, il mantra della Dea suprema del Trika, composto dai tre fonemi S (“l’Essere”), AU (“la congiunzione delle tre energie di Śiva”), Ḥ (“l’emissione cosmica”, il visarga). L’interpretazione è del filosofo Abhinavagupta: “L’universo, grazie alla presa di coscienza delle tre energie, è seme che sta per essere emesso nel grembo di Bhairava[113]”. SAUḤ è quindi l’universo nel suo stato nascente: in questo senso il mantra è anche noto come «il seme del cuore di Śiva». Esso è adoperato nelle pratiche yogiche per l’ascesa della kuṇḍalinī[114], e così André Padoux commenta: « Ne consegue un’esperienza cosmica di salvezza nella quale si combinano, in modo decisamente tantrico, identificazione vissuta con la parola nella sua potenza corporea e cosmica e apprensione intellettuale, se non di una realtà, per lo meno di una costruzione metafisica. » (André Padoux, 2011, p. 146) Il bīja di certo più noto è Oṃ, che può essere impiegato da solo, come espressione fonica dell’Assoluto, o adoperato come formula iniziale dei mantra di invocazione, come ad esempio nell’invocazione alla Dea Kālī: Oṃ Kalyai namaḥ. Lo stesso argomento in dettaglio: Oṃ. – La recitazione ripetitiva di uno stesso mantra è detta japa, pratica spesso accompagnata da una precisa gestualità anch’essa densa di significati, le mudrā, e adoperata in molti contesti, quali la pūjā; i riti collettivi; o anche come ordinario atto di devozione a una particolare divinità; oppure, connessa alla respirazione, nelle pratiche meditative.[115] L’esempio più eclatante di tecnica meditativa con mantra è quello della cosiddetta “recitazione non recitata” (ajapājapa), nella quale il mantra HAṂSA non è in realtà pronunciato, ma articolato con i flussi dell’inspirazione e dell’espirazione. Questo mantra è costituito dai bīja HA e SA che vengono qui intesi come l’espressione delle frasi ahaṃ saḥ (“io sono Lui”) e, in senso inverso, so ‘haṃ (“Egli è me”, con riferimento a Śiva): la funzione fisiologica della respirazione è qui strettamente connessa con la parola, il tutto inteso come un’espressione complessa dell’identificazione con Dio.[116] I riti sessuali potrebbero essere emersi agli inizi del Tantra induista anche come un metodo pratico di generare fluidi corporei trasformativi per costituire un’offerta vitale alle divinità tantriche, oppure essersi evolute da cerimonie di iniziazione dei clan che comprendevano la transazione di fluidi sessuali.[117] Nelle tradizioni del Kaula, per esempio, l’iniziato di sesso maschile era inseminato o insanguinato con le emissioni sessuali della consorte femmina, talvolta frammiste al seme di un guru, ed era così trasformato in figlio del clan (kulaputra) per grazia della consorte; si pensava infatti che il fluido del clan (kuladravya) o nettare del clan (kulāmṛita) scorresse naturalmente dalla sua pancia. Sviluppi successivi del rito enfatizzavano l’importanza della beatitudine e dell’unione divina, che sostituirono le connotazioni più corporee delle forme più antiche. Sebbene in Occidente il Tantra sia pensato come coincidente con i riti sessuali, solo una minoranza di sette vi fa ricorso, e nel tempo per lo più questi riti hanno subito un processo di sublimazione.[117] Non si ritrovano riti sessuali nelle tradizioni viṣṇuite del Pāñcarātra, per esempio, né nello Śaivasiddhānta, corrente religiosa śaiva (dualista e dualista/non-dualista).[118] È però possibile affermare che tratto comune di tutte le tradizioni tantriche è la piena accettazione della varietà del mondo, del piacere in generale e del desiderio sessuale o amoroso (kāma) in particolare. Del resto in India il sesso non è certo un’attività peccaminosa, anche se il perseguire il piacere, l’esserne in qualche modo dipendente cioè, continua a legare l’individuo al mondo ostacolando la liberazione.[118] Questo contrasto fra il sesso e il fine spirituale delle liberazione è risolto, in alcune tradizioni tantriche, guardando all’eros come la via maestra per accedere al divino, eros qui inteso come principio presente in diverse forme, non solo nei riti e nelle pratiche, ma anche nelle speculazioni metafisiche, nella teologia, nella mitologia, nei pantheon e nello yoga.[119] Una caratteristica comune ai pantheon tantrici è la coppia (yamala): ogni dio è compagno di una dea, per esempio Śiva con Pārvatī, o anche con Durgā o Umā; Viṣṇu con Lakṣmī; Bhairava con Tripurasundarī; Kṛṣṇa con Rādhā; eccetera. Anche nelle tradizioni śākta, dove è la Dea a essere considerata Essere Supremo (per esempio Kālī o Kubjikā), pur se meno appariscente, è presente la divinità maschile, quasi sempre Śiva.[120] La coppia divina è in realtà, specie nelle dottrine moniste del Kashimir, intesa come l’unica divinità suprema, vista nei due aspetti trascendente (il maschile) e immanente (il femminile). La Śakti, il polo femminile, altro non è se non la potenza del Dio[121], il suo aspetto immanente, la forza vivificante che opera nel mondo.[120] Śakti è presente nell’essere umano come kuṇḍalinī, energia quiescente, che l’individuo può risvegliare e utilizzare per fini spirituali. Śakti è presente in ogni donna, nel senso che ogni donna è ritenuta rappresentare e possedere naturalmente l’energia divina. Da ciò deriva il posto in un certo senso privilegiato che la donna occupa nelle tradizioni tantriche, cosa che non è possibile riscontrare nel brahmanesimo. Di più, secondo la tradizione vaiṣṇava del Sahajiyā (tuttora seguita nel Bengala presso i Bāul), e l’uomo e la donna sono ritenuti rappresentazioni concrete della coppia divina, in questo caso Kṛṣṇa e Rādhā, e l’unione sessuale ritualizzata è mezzo per il raggiungimento del samādhi.[122] La kuṇḍalinī, forma concreta della Śakti, si trova normalmente inattiva nell’individuo, arrotolata (è questo il significato letterale del termine) nella zona perineale del corpo yogico. Secondo le dottrine yogiche del Tantra, questa kuṇḍalinī ha come meta suprema, proprio in quanto Śakti, il ricongiungimento con la controparte maschile, Śiva: è la riunione del maschile e del femminile, il ripristino dell’androginità originaria, la realizzazione nel microscosmo umano dell’Essere Supremo. Nei testi che spiegano le tecniche yogiche per la risalita della kuṇḍalinī, il linguaggio adoperato è ricco di metafore sessuali.[123] Così si esprime Abhinavagupta a proposito dell’unione: « La fusione, quella della coppia Śiva e Śakti, è l’energia della felicità, da cui emana tutto l’universo: realtà al di là del supremo e del non-supremo, essa è chiamata Dea, essenza e Cuore [glorioso]: è l’emissione, il Signore Supremo. » (Abhinavagupta, Tantrāloka III, 68-69; citato in Lilian Silburn, La Kuṇḍalinī o l’energia del profondo, trad. di Francesco Sferra, Adelphi, 1997, p. 45) E Jayaratha, aggiunge la Silburn, nel suo commento a questo passo[124] parla di unione della kuṇḍalinī con Śiva come sfregamento che dà reciproco godimento. Una cerimonia tuttora in vigore nel Nepal e nel Bengala, la kumārī-pūjā (“adorazione della ragazza”), testimonia il rapporto fra la donna e la śakti. Una fanciulla vergine di circa dodici anni viene fatta sedere su un trono e tramite una funzione complessa, la ragazza viene deificata divenendo così temporaneamente personificazione della Dea stessa, e in quanto tale adorata.[125] Il cakra-pūjā è una cerimonia religiosa di gruppo: cakra (“cerchio”) indica qui il circolo di cui fanno parte i membri di una comunità tantrica. Il rito avviene di notte: attorno a un trono dedicato alla Dea, gli officianti maschi si dispongono a ferro di cavallo. Il Signore del Cerchio assegna a ogni uomo una donna (a sorte o seguendo un piano solo a lui noto), che andrà a sedersi alla sinistra del compagno. Il rito prosegue con offerte alla Dea, recitazione di mantra e meditazioni secondo un rituale complicato, al termine del quale ogni coppia si apparta.[126] Un rito molto esplicito è la yoni-pūjā (“adorazione della vagina”). Il rito fa parte di una tradizione vaiṣṇava ed è descritto nello Yoni Tantra. Una donna, opportunamente preparata e ornata, è collocata prima su un maṇḍala e poi fatta accomodare sulla coscia sinistra dello yogin che officia il rito. Costui procede con la cerimonia facendole bere del vino, recitando mantra e massaggiandole la vagina con pasta di sandalo, quindi si unisce a lei. Le secrezioni dell’eiaculazione sono poi offerte come oblazione alla Dea. Diversi altri testi prescrivono l’unione sessuale rituale, talune molto particolari, come quella che si pratica di notte su cadaveri.[127] L’unione sessuale e l’uso del vino per fini rituali sono pratiche ritenute non ortodosse nel brahmanesimo, anzi proibite; e proibito al brahmano è in ogni caso il consumo di bevande alcooliche, di carne e pesce, stante al Manusmṛti (la “Legge di Manu”), testo fondamentale del codice e dell’etica hindu. Nelle tradizioni tantriche cosiddette della “mano sinistra” (vāmācāra) sono invece trasgredite proprio queste raccomandazioni, e la questione è nota come le pratica delle «cinque emme»: maithuna (unione sessuale), māṃsā (carne), madya (vino), matsya (pesce), mudrā (cereali arrostiti).[128] E a proposito del maithuna, questo Tantra della tradizione Kaula (XII secolo circa) sottolinea il significato spirituale dell’amplesso: « Per chi non sa questo, la propria consorte a cui deve unirsi giace incosciente, ma così conosce, sa che essa è la consorte interiore, ben desta, la shakti con cui compiere la propria unione. L’effluvio di beatitudine che è prodotto dall’amplesso della coppia divina del Supremo Shiva e la Suprema Dea, questo è l’unico e vero significato dell’unione sessuale. Chi in altro modo si unisce a una donna, non è altro che un animale che copula. » (Kulārṇava Tantra, V, 111-112; citato in Cattive tradizioni. Estratti dalla via della mano sinistra, a cura di Fabio Zanello, Coniglio editore, Roma, 2008) Quando eseguito in accordo al Tantra il rituale sessuale culmina in una sublime esperienza di infinita consapevolezza, per entrambi i partecipanti. I Tantra specificano che il sesso ha tre finalità ben distinte – procreazione, piacere e liberazione. Coloro che cercano la liberazione evitano l’orgasmo frizionale per una forma più alta di estasi, e la coppia che prende parte al rituale si immobilizza in un abbraccio statico; diversi rituali sessuali sono raccomandati e praticati, comprendendo riti purificatori e preparatori elaborati e meticolosi. L’atto risulta in un equilibrio delle energie che scorrono nell’ida prāṇico nel corpo yogico di entrambi i partecipanti, il suṣumnā si risveglia e la kuṇḍalinī risale dentro di esso. Questo può infine culminare nel samādhi, dove le rispettive individualità di ciascuno sono completamente dissolte nella coscienza cosmica. I praticanti interpretano l’atto su molteplici livelli; i partecipanti maschio e femmina unendosi fisicamente rappresentano il Dio e la Dea, il principio maschile e quello femminile, e al di là del corpo fisico le due energie si fondono generando un unico indistinto.[83]. Visione occidentale del Tantra – In Occidente, i primi orientalisti europei vedevano il Tantra come una forza sovversiva, antisociale, licenziosa e immorale colpevole della corruzione dell’induismo classico; molti oggi lo vedono invece come una celebrazione dell’uguaglianza sociale, della sessualità, del femminismo e della cultura del corpo[129], al punto che se ne è formata una variante occidentale (Neotantra), seppure criticata dai tantristi orientali. Sir John Woodroffe – Il primo studioso occidentale ad affrontare seriamente lo studio del Tantra fu il magistrato britannico Sir John Woodroffe (1865 – 1936), giudice presso la Corte Suprema del Bengala, che con lo pseudonimo di Arthur Avalon scrisse molti testi sul tema, anche traducendo dal sanscrito. Egli è comunemente considerato il “padre fondatore degli studi tantrici”[130]. A differenza dei suoi predecessori, Woodroffe era apologetico nei confronti del Tantra, difendendolo contro le innumerevoli critiche e presentandolo come un sistema etico-filosofico compatibile con i Veda e i Vedānta[131]. Sviluppi successivi – Dopo Sir John Woodroffe, diversi studiosi cominciarono ad analizzare attivamente gli insegnamenti tantrici, alcuni restando in ambiti accademici, altri allontanandosene. Si ricordano la divulgatrice francese Lilian Silburn (1908 – 1993); lo storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907 – 1986), uno dei primi a interessarsi dello yoga tantrico; il controverso e reazionario Julius Evola (1898 – 1974), che cercò di coniugare tantrismo e cultura occidentale; l’orentalista e accademico tedesco Heinrich Zimmer (1890 – 1943); Agehananda Bharati (1923 – 1991), nome monastico di Leopold Fischer, professore di antropologia presso la Syracuse University, il quale diede una lettura personale del mondo Tantra imperniata sull’edonismo e la sessualità; Aleister Crowley (1875 – 1947), occultista britannico, che si ispirò allo yoga tantrico per promulgare pratiche di magia sessuale; Omar Garrison, che nel 1964 pubblicò Tantra. The Yoga of Sex, contribuendo alla diffusione dell’idea del sesso come componente fondamentale del fenomeno tantrico e come “salvezza” per l’Occidente.[132][133] Il padre fondatore della psicologia analitica, Carl Gustav Jung (1875 – 1961), dedicò molti saggi al simbolismo del maṇḍala, considerando l’India come il paese dove i simboli dell’inconscio collettivo si manifestano più chiaramente.[134] Hugh Urban, Zimmer, Julius Evola, e Eliade vedevano il Tantra come «la culminazione di tutto il pensiero indiano: la forma più radicale di spiritualità e il cuore arcaico dell’India aborigena», e lo consideravano come la religione ideale dell’era moderna. Tutti e tre vedevano il Tantra come «il cammino più “trasgressivo” e “violento” verso il sacro»[135]. Zimmer elogiò il Tantra per il suo atteggiamento affermativo nei confronti del mondo: « Nel Tantra, l’approccio non è quello del Nay (arcaismo per “No”) ma dello Yea (arcaismo per “Sì”) […] l’atteggiamento verso il mondo è affermativo […] L’uomo vi si deve avvicinare attraverso e per mezzo della natura, non con il rifiuto della natura” » (Urban, 2003, p. 168)