Il Tantra come via per l’estasi spirituale 1 parte

Il Tantra è una disciplina orientale che mira a riscoprire l’unità divina mediante una serie di celebrazioni rituali e pratiche di carattere sessuale. Grande importanza viene data agli esercizi che permettono di ottenere il controllo di processi fisiologici quali la temperatura corporea o il ritmo cardiaco. Una scuola di pensiero che influenzò marginalmente la Teosofia fu la dottrina, a metà strada tra l’induismo e il buddismo, chiamata Tantra. Questo culto, tuttora esistente, mira a stimolare le energie corporee, incanalandole nella grande forza che conduce l’adepto al perfezionamento spirituale. Sebbene la maggior parte dei culti indiani consideri l’ascetismo come la via verso l’illuminazione, il Tantra propugna la ricerca dell’estasi, intesa come riunione sessuale e mistica delle due divinità che furono separate all’epoca della creazione cosmica. Il Tantra insegna che prima della creazione le divinità maschile e femminile, Shiva e Shakti, erano fuse insieme in una totalità cosmica; ma alla nascita dell’universo vennero separate e la loro divisione simboleggia la conseguente dualità di tutte le cose sulla Terra. Il Tantra cerca di riscoprire l’unità divina e quindi di conoscere l’illuminazione e l’estasi degli dei. il Tantra non è orgiastico, nel senso comune del termine, quanto altamente disciplinato. Grande importanza si attribuisce ad esercizi di respirazione detti pranayama, al controllo di processi fisiologici quali la temperatura del corpo, il ritmo cardiaco il raggiungimento del piacere sessuale. Altre pratiche contemplano la meditazione e l’uso dei mantra utilizzate per concentrare sviluppare le energie del corpo. I tantristi credono che il controllo consapevole del corpo ponga l’adepto in contatto con il “corpo sottile”, un’entità costituita di canali le tre Nabi, che captano l’energia vitale. Si ritiene che il corpo sottile presenti sette centri di energia, i chakra, disposti al centro del corpo: lungo una linea che va dalla radice della spina dorsale alla sommità del cranio. Alla radice della spina dorsale giace acciambellato dormiente, il serpente Kundalini, simbolo della dea Shakti. La pratica tantrica risveglierebbe il serpente, che comincia a risalire verso il chakra più alto, rivitalizzando nella sua ascesa ogni chakra sino ad unirsi a quello della sommità, simbolo del dio Shiva. Un’altra via verso tale unione è la pratica tantrica del chakrapuja, in cui molte le coppie partecipano a riti sessuali. I partner sono scelti a caso e, conformemente agli insegnamenti dei tantristi, il sesso viene praticato come rituale sacro, senza gli abituali condizionamenti dell’amore e della passione. I Teosofi non fecero propria la metodologia sessuale tantrica, ma Charles Leadbeater, uno dei fondatori, si interessò alla concezione sessuale e ad altri rituali. Il suo libro “Il Chakra” si basa sulle nozioni fondamentali del Tantra, del corpo sottile e dei sette centri dell’energia, ed egli si adoperò per introdurre tali concezioni nell’eclettica corrente mistica della Teosofia. Leadbeater fu istruito al Tantra da un suo seguace, divenuto membro di Ordo Templi Orientis (Ordine dei Templari Orientali), che applicava la concezione tantrica del sesso. Tantra è un termine sanscrito (in scrittura devanāgarī, तंत्र: “telaio”, “ordito”[1]; ma tradotto anche come “principio”, “essenza”, “sistema”, “dottrina”, “tecnica”[2]) per indicare sia un insieme di testi[3] dalla non univoca classificazione, un insieme di insegnamenti spirituali e tradizioni esoteriche originatesi nelle culture religiose indiane con varianti induiste, buddhiste, giainiste e bönpo, con diramazioni diffuse in Tibet, Cina, Corea, Giappone, Indonesia e molte altre aree dell’Estremo Oriente[4]. Secondo l’accademico Padoux è possibile elencare una serie di caratteristiche peculiari dell’universo tantrico in sé, aspetti atti a riconoscere ciò che è “tantrico”. Essi sono[13]: Immanenza e Potenza: l’universo e gli esseri umani sono permeati dell’energia divina, la śakti, personalizzata come una Dea. Trasmissione: il tāntrika è un iniziato, il che implica la presenza di un maestro, il guru, e una trasmissione della dottrina (saṃpradāya) di maestro in maestro. Segretezza: le dottrine e le pratiche hanno il carattere della segretezza, quindi sono esoteriche. Pūjā: il rituale di adorazione di una divinità è quello della pūjā, che è sempre tantrica nella sua struttura anche se rivolta a una divinità non tantrica. Maṇḍala: il pantheon, sempre vasto, è organizzato in maṇḍala. Mantra: l’oralità, la parola (vāc), assume un ruolo centrale in tutte le pratiche e riti, i mantra sono onnipresenti; molti di essi altro non sono che la forma fonica di divinità. Yoga: esistenza di uno stretto legame con lo yoga[14]. E aggiunge: “Tuttavia si può ammettere che il Tantrismo sia una categoria a parte e lo si può definire in generale come una via pratica ai poteri sovrannaturali e alla liberazione; consiste nell’uso di pratiche e tecniche specifiche (rituali, corporee e mentali), che sono sempre associate a una dottrina particolare.”[15] Sulle peculiarità delle tradizioni tantriche, così altri studiosi: David Gordon White suggerisce che il principio chiave del tantra risieda nel fatto che l’universo che noi sperimentiamo sia la concreta manifestazione dell’energia divina che lo crea e lo mantiene: le pratiche tantriche cercano di contattare e incanalare quell’energia all’interno del microcosmo umano.[16] Lo stesso autore più recentemente[17] ha evidenziato come la caratteristica comune delle dottrine e delle pratiche tantriche consista nell’uso di maṇḍala, mantra e pratiche rituali allo scopo di mappare, organizzare e controllare un universo di potenze, impulsi e forze caotiche.[18] Madeleine Biardeau riassume le dottrine tantriche come “un tentativo di porre kāma, il desiderio, in ogni suo significato, al servizio della liberazione.”[19] Prabhat Ranjan Sarkar filosofo indiano contemporaneo noto anche con il nome spirituale di Shrii Shrii Ánandamúrti, spiega così il significato del termine tantra: “Il significato del termine tantra è “liberazione dal legame”. La lettera ta è il seme (suono) dell’ottusità (staticità). E il verbo radice trae suffissato da da diventa tra, che significa “ciò che libera” – così, quella pratica spirituale che libera l’aspirante dall’ottusità o dall’animalità della forza statica ed espande il sé spirituale dell’aspirante è il Tantra sadhana. Per questo non potrebbe esistere alcuna pratica spirituale senza Tantra.[20] Lo stesso autore, in un altro volume spiega che i praticanti del tantra più elevato dovrebbero possedere ampie visuali, rinunciando ai pensieri ristretti ed essere disposti a sacrificarsi al fine di promuovere il benessere altrui. Superando in tal modo, attraverso l’autorealizzazione e il servizio disinteressato all’umanità, diversi ostacoli mentali.[21] Tantrismo. A proposito di questo termine, “tantrismo”, occorre subito chiarire due aspetti fondamentali per la comprensione dell’intero fenomeno. Il primo è che il termine è del tutto sconosciuto alla tradizione classica indiana, non esiste in sanscrito. Esso fu infatti coniato in occidente[22][23] nel XX secolo da studiosi occidentali del mondo religioso indiano. Pare che il primo a menzionare “tantrismo” sia stato, nel 1918, l’avvocato britannico Sir John Woodroffe, che firmava con lo pseudonimo Arthur Avalon i suoi testi in qualità di orientalista.[24] Invero, già dal secolo precedente gli orientalisti avevano individuato nel mondo hindu un insieme di fenomeni, culti e ideologie, che non riuscivano a rapportare al brahmanesimo, all’induismo classico fondato sui Veda e sulle Upaniṣad cioè. Essi riscontravano queste teorie e pratiche in testi che in buona parte adoperavano come suffisso il termine “tantra”. Di qui i termini “tantrismo”, “tantrico”, e “tantra” nel senso di religione o setta religiosa.[24] Il secondo aspetto è strettamente connesso col precedente: il termine “tantrismo” finì per indicare e caratterizzare un insieme di pratiche e credi ritenuti sostanzialmente differenti e scollegati da ciò che era noto delle religioni dell’India, conoscenze per lo più teoriche, fondate sullo studio dei testi. Così l’accademico francese André Padoux[25]: « Nacque così l’idea di un complesso tantrico estraneo al pensiero e alle religioni originari dell’India […] idea completamente sbagliata. » (André Padoux, 2011, p. 13). Questo errore di inquadramento era però già stato messo in evidenza da alcuni studiosi, come l’indologo H. H. Wilson, che sin dal 1832 riconosceva i riti definiti poi tantrici in tutte le «categorie di hindu». Anche Arthur Avalon osservava l’induismo medioevale e moderno essere in larga parte tantrico.[24] Pur tuttavia si fece largo la convinzione che in India esistessero due fenomeni o tradizioni religiose abbastanza distinte tra loro, pregiudizio che tutt’oggi persiste, specie al di fuori degli ambiti accademici. Così si esprime al riguardo l’accademico italiano Raffaele Torella: « Nel tantrismo non c’è un’altra India che viene alla riscossa, ma l’unica India che, proprio all’interno della sua élite brahmanica, sente giunto il momento di riformulare se stessa per garantire la sua futura sopravvivenza. » (R. Torella, citato in André Padoux, 2011, p. XII). Idea simile era già presente nel pensiero dello storico delle religioni Mircea Eliade che, in Techniques du Yoga (1948), nega lo status di nuova religione al tantrismo. Ancor più radicale è Madeleine Biardoux che nel suo L’induismo. Antropologia di una civiltà (1981) scrive che «il tantrismo non inventa nulla».[24]. Per Herbert Guenther il “tantrismo” rappresenta “una delle nozioni più confuse e uno dei maggiori fraintendimenti che la mente occidentale abbia sviluppato”.[26]. Per André Padoux “non è facile fornire una valutazione obiettiva e scientifica del tantrismo, in quanto il soggetto è controverso e sconcertante. Non solo gli specialisti danno definizioni diverse del tantrismo, ma la sua stessa esistenza è stata talvolta negata.”[15]. Per Brian K. Smith “il tantrismo si può certamente classificare come tra le categorie più problematiche nello studio della religione in generale e nello studio dell’induismo in particolare. Praticamente ogni proposizione che riguarda il tantrismo è controversa, partendo dalle sue origini e caratteristiche distintive fino alla valutazione della sua posizione nella storia delle religioni”.[27] Tāntrika – Come si è detto, esiste tutta una letteratura indiana, i Tantra, i cui testi in buona parte adoperano il suffisso “tantra”: in queste opere si definisce tāntrika il praticante, colui cioè che segue il percorso spirituale descritto nei testi. Il termine è poi spesso adoperato, sempre nella letteratura indiana, in opposizione a vaidika, colui che segue i Veda. Già nel XV secolo il filosofo indiano Kullūka Bhaṭṭa parlava di rivelazione duplice, nei Veda e nei Tantra, e non, quindi, di due rivelazioni, e nemmeno di un’ortodossia da una lato e eterodossia dall’altro.[24]. Il culto vedico originario, tranne qualche raro caso, non esiste più al giorno d’oggi in India. Continuano però a esistere riti brahmanici la cui osservanza non è affatto respinta da chi si ritiene tāntrika. Fa notare Padoux che oggi l’ortodossia hindu riguarda più il comportamento sociale che quello religioso: non ha tanto importanza quale dio si adori e come, o quali templi si frequenti, o quali pratiche spirituali si preferisca seguire nel privato: più importanti sono sicuramente i riti sociali che segnano i passaggi importanti della vita (saṃskāra), e l’osservanza delle caste (varṇa).[24] Tantra, i testi – Esistono in letteratura molti testi definiti come Tantra, sia in sanscrito sia in lingue vernacolari, come il bengali e il tamil. Diverse sono anche le classificazioni di questo insieme di testi, non sempre univoche e iversalmente accettate. La tradizione vuole che siano 92 i tantra rivelati da Śiva[28], 28 Āgama e 64 Bhairava tantra. Accanto a questi Śaiva tantra occorre poi aggiungere gli Śakta tantra, per le tradizioni religiose che invece considerano la Dea quale divinità principale; e molti altri insiemi di tantra che fanno parte di tradizioni minori. Essendo stati questi testi trasmessi oralmente prima di darne testimonianza scritta, non è possibile fornire una datazione certa dell’origine. L’orientalista olandese Jan Gonda ritiene che essi vadano datati dopo il IV secolo CE[29]; André Padoux sostiene che la Niḥśvāsatattva Saṃhitā sia uno dei tantra fra i più antichi a noi pervenuti, esso risalirebbe al V-VI secolo[30]. Tantra, il termine – Etimologicamente il termine “tantra” si ricollega alla radice verbale TAN, verbo che vuol dire “stendere”, con riferimento a quanto si fa nella lavorazione dei tessuti. Il termine è perciò generalmente tradotto con “telaio”, “ordito”[31], e quindi in senso lato, “opera”, “testo”[32]. In letteratura esistono altre traduzioni del termine, che tendono più o meno a dare una chiave interpretativa e del termine stesso e del contesto. Osho Rajneesh, moderno esponente del Tantra, ha reso il termine con “tecnica”, “metodo”[33]: « La parola “tantra” significa tecnica, il metodo, il sentiero, perciò non è filosofico: ricordalo. Non si occupa di problemi e di indagini intellettuali. Non si occupa del “perché” delle cose: si occupa del “come”, non di che cosa sia la verità ma di come possa essere raggiunta. » (Osho, Il libro dei segreti, 2008, p. 15). Gavin Flood fa notare che il termine può anche ricollegarsi alla radice TṚ, col significato quindi di “attraversare”, “andare oltre”, con riferimento al superamento del ciclo delle rinascite.[34]. Nella tabella seguente si riporta in ordine cronologico la ricorrenza del termine in letteratura e la sua traduzione o accezione. Occorre comunque e in ogni caso tenere presente, nella lettura di questa tabella, che quello che a noi lettori di oggi è accessibile, è pur sempre la traduzione del termine stesso, quindi un altro termine, o un insieme di parole, effetto di una traduzione. Le tradizioni tantriche – Alcune fra le maggiori tradizioni che presentano elementi tantrici sono: Aghora, Āḷvār, Bāul, Gauḍīya, Kālāmukha, Kālīkula, Kānpaṭha, Kāpālika, Kaula, Krama, Lākula, Liṅgāyat, Nātha, Nāyaṇar, Pāñcarāṭra, Pāśupata, Sahajiyā, Śaivasiddhānta, Śrīvidyā, Trika. È possibile considerare e classificare queste tradizioni da più punti di vista, per esempio in relazione alla divinità principale (o alle divinità principali); in relazione all’area geografica di appartenenza e al periodo storico (molte sono estinte); in relazione all’eterodossia del rituale, nel senso di allontanamento più o meno marcato dai canoni vedici. Buona parte di queste tradizioni contemplano quale divinità principale o comunque determinante Śiva, l’erede del dio vedico Rudra, già oggetto di venerazione sin dai primi secoli della nostra era, e assurto poi a grande dio dell’induismo. Molti studiosi sostengono inoltre che il culto di Śiva, o di altra divinità che ne aveva le caratteristiche, risalirebbe a epoche pre-vediche, stante ad alcuni sigilli ritrovati nella Valle dell’Indo e risalenti a un’epoca antecedente l’invasione degli indoari. La questione è comunque controversa. Altrettanto numerose sono le tradizioni tantriche che invece prediligono il culto della Dea, che si presenta con nomi e caratteristiche differenti, a volte anche ben contrastanti fra loro. Abbiamo, come dee più importanti: Tripurasundarī; Kālī, che fa parte di un gruppo di dieci dee, le Mahāvidyā (le dee della Grande Conoscenza); Durgā. Accanto a queste esistono comunque tantissime altre divinità secondarie, a volte solo locali come le dee di villaggio, a volte semplici compagne o assistenti di dee maggiori, quali per esempio le Bhairavī e le Yoginī. Non sempre è possibile distinguere nettamente fra tradizioni (tantriche) śaiva (quelle che si rifanno a Śiva) e tradizioni śākta (quelle che si rifanno alla Dea: il termine deriva da Śakti, letteralmente “energia”, e in senso lato Dea, perché nelle tradizioni tantriche śaiva la Dea è paredra del Dio e sua “energia” che opera nel mondo, suo aspetto immanente).[51] Le tradizioni śākta sono tipiche dell’India meridionale, e certo non erano caratteristica del mondo ariano.[52] Il mondo ario era essenzialmente patriarcale, né è possibile riscontrare un culto della Grande Madre nella cultura vedica.[53] Queste tradizioni sono dunque molto probabilmente un’eredità delle popolazioni autoctone dell’India meridionale, delle popolazioni dravidiche o pre-dravidiche, come i munda; come aborigena è per esempio la devozione a una divinità sotto forma di adorazione, la bhakti; come aborigena è la forma di culto più diffusa oggi in India, la pūjā.[54][55] Nelle tradizioni tantriche si ritrovano dunque, già in epoche precedenti, molti elementi tipici dell’induismo attuale e che non facevano parte del mondo brahmanico: oltre la bhakti, la pūjā, il culto della Dea, il dio Śiva nella sua forma pre-vedica o meno, va ricordato anche lo Yoga. Su quest’aspetto così sintetizza Mircea Eliade: « Gli Indo-europei portavano una società di struttura patriarcale, un’economia pastorale ed il culto degli dei del Cielo e dell’atmosfera, in una parola la “religione del Padre”. Gli aborigeni preariani conoscevano già l’agricoltura e l’urbanesimo (la civiltà dell’Indo) e, in generale, partecipavano alla “religione della Madre”. L’induismo, come si presenta alla fine del Medioevo, rappresenta la sintesi di queste due tradizioni, ma con un accentuato predominio dei fattori aborigeni: l’apporto degli Indo-europei ha finito per essere radicalmente asiatizzato. L’induismo significa la vittoria religiosa della tradizione locale. […] Da questo punto di vista, il tantrismo prolunga e intensifica il processo di induizzazione incominciato dai tempi post-vedici. » (Eliade, 2010, p. 334 e p. 194) In ambito vaiṣṇava troviamo essenzialmente le tradizioni del Pāñcarāṭra e del Sahajiyā, essendo le tradizioni tantriche in gran parte o śākta o śaiva. Il Pāñcarāṭra, alla cui base vi è una vasta letteratura, è molto vicino all’ortodossia brahmanica e tuttora vivo in India. I seguaci sono devoti al dio Nārāyaṇa, assimilato a Viṣṇu e adorato anche col nome di Vasudeva. La sua śakti è Māyā, adorata anche col nome di Lakṣmī, dea benigna considerata dispensatrice di fortuna e benessere. Da Māyā è considerata emanata la natura, prakṛti, secondo una visione filosofica che è molto prossima quella del Sāṃkhya. Per il resto i seguaci non adottano riti trasgressivi e utilizzano i mantra e lo yoga come mezzi per la liberazione.[56] I Bāul, tradizione ancora attiva nel Bengala, hanno raccolto l’eredità dei Sahajiyā,: sono devoti alla coppia di dèi Kṛṣṇa e Rādhā, e praticano, fra altri culti devozionali, l’unione sessuale ritualizzata come mezzo per il raggiungimento della liberazione.[57] Un’altra tradizione moderata la si ritrova nello Śaivasiddhānta, una tradizione śaiva tuttora presente in India soprattutto nel sud e che risalirebbe almeno al X secolo[58]. Śiva è adorato nella forma di Śadaśiva, Śiva l’eterno, il Signore (pati) che emana l’universo, lo conserva, lo riassorbe, si cela e si rivela per mezzo della grazia.[59] Lo Śaivasiddhānta è dualista: da un lato le singole anime (paśu) sono eternamente distinte dal Signore (causa efficiente); dall’altro il mondo, nel quale agisce la māyā (causa materiale), è distinto da Lui. Quindi Dio ha creato il mondo e le anime, ma ne resta sempre separato; l’unico contatto fra le anime e Dio si ha nella grazia divina. La māyā non è una divinità, ma soltanto un’energia che non è dotata della coscienza di sé. Strumento principale per la liberazione è il rito: i seguaci dello Śaivasiddhānta sono iper-ritualisti e presentano una devozione emozionale (bhakti) molto accentuata. Essendo una dottrina dualista, la liberazione dal ciclo delle rinascite non implica alcun ricongiungimento dell’anima col Signore, ma soltanto un’assimilazione della Sua essenza.[60] Il cammino per la liberazione è aperto a tutte le classi sociali, ma inaccessibile alle donne, le quali possono soltanto beneficiare del percorso del proprio consorte.[61] I Nātha costituiscono un’importante tradizione śaiva, evolutasi poi nel tempo e oggi rappresentata dai Kānpaṭha. È ai Nātha che si deve, nel IX secolo d. C. circa[62], l’introduzione nel mondo tantrico dello Haṭhayoga, sistema Yoga che contempla numerose posture (āsana), anche difficili, pratiche di purificazione del corpo e tecniche di meditazione complesse. La dottrina è non-dualista: tramite i metodi dello Haṭhayoga ci si può ricongiungere con Dio, Śiva, che è attivo nel mondo con la sua śakti, non venerata quindi come dea ma visualizzata come sessualmente unita a Śiva.[63] Una delle più antiche sette śaiva è quella dei Kāpālika (“portatori di teschio”), i cui seguaci erano asceti distinguibili per il fatto di portare con sé un cranio umano aperto che usavano come scodella per il cibo. Da costoro e da altri culti trasgressivi e visionari che prediligevano divinità terrifiche, sorse, intorno al II secolo d. C., la sette dei Pāśupata[64] e successivamente quella dei Lākula. Da questi ebbe quindi origine un nucleo di culti che va sotto il nome di Kula.[65] Del Kula originario non si sa molto. Questo nucleo evolse[66] dando luogo a quattro tradizioni, ciascuna coi propri Tantra e ciascuna col proprio pantheon, ma con le medesime concezioni metafisiche: sono non dualisti; e con un complesso di riti e pratiche yogiche somiglianti. Sono tradizioni śākta, essendo la divinità principale una Dea, personificazione della “energia divina” di Śiva. Śiva conserva pur sempre una supremazia, che però è più di ordine metafisico che devozionale, e la Dea è adorata sotto numerosissime forme, restando però una[67] e sovrana.[68] Le quattro tradizioni sono[69]: Pūrva-āmnāya (“tradizione orientale”) È l’erede del Kaula originale, col dio Kuleśvara e la dea Kuleśvarī, le otto madri Bramī, Kālī, eccetera. Questa tradizione è poi evoluta nella scuola del Trika. Il termine trika sta per “triade”, e si riferisce al fatto che la dottrina che espone prevede un insieme di triadi. Per esempio Parā (la Suprema), Aparā (la Non-suprema), Parāparā (la Suprema-non suprema) sono le tre dee del pantheon, essenzialmente entità metafisiche. Il culto è rivolto invece alla dea Kālī. Dopo un’interruzione durata secoli, la scuola del Trika è stata ripresa[70] nel XX secolo da Swami Lakshman Joo (1907 – 1991). Uttara-āmnāya (“tradizione settentrionale”) È la tradizione che ha dato poi luogo alla scuola denominata Krama, con le diverse forme di Kālī quali dee al centro dei culti. Il Krama è caratterizzato da un sistema pentadico e il termine sta per “successione”, con riferimento al percorso spirituale che la coscienza deve seguire per la liberazione. Paścima-āmnāya (“tradizione occidentale”) È detta anche Kubjikāmata[71], dal nome della divinità principale, la dea gibbuta Kubjikā, il cui culto è ancora vivo nel Nepal. Dakṣiṇa-āmnāya (“tradizione meridionale”) È detta anche Śrīvidyā, e gli dèi principali sono quelli dell’eros: Kāmeśvara e Kāmeśvarī, col culto della dea Tripurasundarī (dea benigna, identificata anche con Lalitā nelle versioni vedantizzate), e di Bhairava. Il Trika e il Krama non sono tradizioni nel senso stretto del termine, ma scuole esegetiche sviluppatesi come eredi delle rispettive tradizioni. Queste due scuole insieme a quelle dello Spanda e del Pratyabhijñā, costituiscono le quattro scuole dello Śivaismo tantrico non dualista, fiorito nel Kashmir tra la fine del I millennio e l’inizio del successivo. I culti delle quattro tradizioni del Kula sono culti trasgressivi e visionari, e in questo si differenziano molto da altre tradizioni. Trasgressivi sia per l’uso di sostanze e cibi ritenuti impuri dall’ortodossia brahmanica; sia per l’adozione di pratiche proibite, quali l’unione sessuale ritualizzata (tranne che nella tradizione del Dakṣiṇa-āmnāya, la più moderata fra le quattro). I culti visionari prevedono pratiche di meditazione complesse, sia su yantra, sia sulle icone adibite al culto e all’adorazione, la pūjā.[72] I Liṅgāyat, fondata da Basava nel XII secolo e tuttora attiva soprattutto nel Karnataka, avendo ereditato in qualche modo le tradizioni śaiva originarie. Più che essere dediti all’ascetismo, gli adepti preferiscono la via della devozione, e unico oggetto del loro culto è il liṅgā, il “segno” di Śiva, portato anche come pendente al collo (da cui il nome). Sono caratteristici anche per il fatto di non praticare la cremazione, ma la sepoltura.[73] Eredi attuali sono gli Aghora[74] (“non terrifico”), movimento diffuso soprattutto a Varanasi. Questi asceti mangiano in teschi umani, meditano nei campi di cremazione e utilizzano le secrezioni del corpo come offerta agli dèi.[75] Almeno fino alla fine del XIX secolo erano dediti al cannibalismo.[76] Le pratiche – (SA) « nādevo devam arcayet » (IT) « Non si può venerare un dio se non si è un dio. » (Massima tantrica, citato in Mircea Eliade, Lo Yoga, Op. cit., p. 200) Il tantrismo, nel fine che persegue in quanto insieme di dottrine, non si differenzia dagli altri movimenti religiosi hindu: è anch’esso una via per la liberazione (mokṣa) dal ciclo delle rinascite (saṃsāra), dalle sofferenza che l’essere in vita comporta. L’uomo vive in universo che è emanato e continuamente animato da Dio[77], il quale Dio può manifestare la sua potenza sia sotto forma di oscuramento (tirodhāna), essere cioè di ostacolo alla salvezza, sia concedendo la grazia (anugraha) nel mostrare le vie per la liberazione.[78] Fra l’umano e il divino sussiste un isomorfismo per cui il corpo risulta permeato di forze sovrannaturali. Il corpo assume, nelle tradizioni tantriche, un’importanza nucleare[79] proprio per questa compenetrazione fra umano e divino, fra corpo e universo. La concezione non è certo nuova: già nei Veda è possibile rintracciare l’idea del corpo umano come microcosmo, e del macrocosmo come corpo; ma è proprio nel tantrismo che quest’aspetto si presenta come dato assolutamente caratteristico, e quasi ogni aspetto del mondo tantrico è inquadrabile in relazione al corpo.[80] Così recita una Upaniṣad dello Yoga: « Nel corpo dell’adepto, / l’elemento Terra è situato / tra i piedi e le ginocchia; / la Terra è un quadrato / di colore giallo / e il suo mantra è LAM. / Là risiede Brahmā, / con quattro braccia, quattro volti, / splendenti come l’oro. » (Yogatattva Upaniṣad, 86 e segg.; citato in Jean Varenne, 2008). Per quanto concerne il sistema in sé, la via tantrica, più che essere una dottrina coerente, è un insieme di pratiche e ideologie, caratterizzato da una grande importanza dei rituali, da pratiche per la manipolazione dell’energia (śakti), con azioni talvolta considerate “trasgressive”, dall’uso del mondano per accedere al sopramondano e dall’identificazione del microcosmo con il macrocosmo.[81] Tale correlazione consentirebbe al tāntrika (l’adepto dei Tantra) di poter accedere, mediante delle precise tecniche, all’energia cosmica presente nel proprio corpo e quindi raggiungere la liberazione con questo corpo e in questa vita (jīvanmukti). Il tāntrika cerca di utilizzare il potere divino che scorre in tutte le manifestazioni universali al fine di ottenere i propri risultati, siano essi spirituali, materiali o entrambi.[82] I tāntrika considerano la guida di un guru un prerequisito ndispensabile[83]. Nel processo di manipolazione dell’energia il praticante ha diversi strumenti a disposizione: tra questi lo Yoga, con pratiche anche estreme che portano a un controllo pressoché completo del proprio corpo; la visualizzazione e verbalizzazione della divinità attraverso i mantra, e la meditazione su di essi; l’identificazione e internalizzazione del divino, con pratiche meditative tendenti a una totale immedesimazione con una divinità[84]. Secondo la visione del mondo hindu, l’evoluzione del mondo è ciclica, e all’interno di ogni ciclo (detto kalpa) sussistono ere (dette yuga) nelle quali la storia principia da un’età dell’oro (Satya Yuga) per giungere ad ere cosmiche di progressivo declino spirituale. L’ultima era, detta Kali Yuga (quella in cui attualmente viviamo), è caratterizzata da ignoranza spirituale, diffusione di falsi dèi o ateismo, commistione delle caste, guerre e sovvertimento dei valori del dharma. Gli adepti del Tantra ritengono che i Veda e la tradizione brahmanica non siano più adeguate in questa nostra era: l’uomo ha perso la capacità spirituale di servirsi di quella tradizione per conseguire la liberazione. Né il rito vedico, né l’introspezione avviata nell’epoca delle Upaniṣad e nemmeno i metodi dello Yoga classico sono ritenuti sufficienti a questo scopo. In alcune tradizioni tantriche è possibile persino ravvisare un disprezzo per gli asceti: nel Kulārṇava Tantra si ironizza sul fatto che questi girino nudi come gli animali, ma non per questo, come gli animali, raggiungono la liberazione.[85] Nel Guhyasamāja Tantra si può leggere: « Nessuno riesce a ottenere la perfezione mediante operazioni difficili e noiose; ma la perfezione si può acquistare facilmente mediante la soddisfazione di tutti i desideri » (Guhyasamāja Tantra; citato in Mircea Eliade, Lo yoga, Op. cit., p. 197). Il tantrismo ritiene che sia possibile raggiungere l’illuminazione anche nelle peggiori condizioni morali e sociali: l’età oscura in cui siamo immersi presenta innumerevoli ostacoli, che rendono difficile la maturazione spirituale. Per questo sono necessarie misure drastiche come, appunto, il metodo tantrico.[85]