L’Ordine astrologico nel Paradiso dantesco dalle Gerarchie celesti alla sfera del Primo mobile

Il modello cosmologico al quale Dante fa riferimento nella stesura del suo capolavoro è il sistema aristotelico-tolemaico, frutto della sintesi teologica formulata da Tommaso d’Aquino – verso la metà del XIII° secolo – che combina la logica di Aristotele con il mistero cristiano. Come è noto, la descrizione dei Cieli del Paradiso si basa essenzialmente su questo modello, espresso scientificamente dagli scritti di Claudio Tolomeo, astronomo e matematico del II° secolo d.C. e, sebbene la visione dantesca rifiuti esplicitamente l’astrologia previsionale (“Questo principio, male inteso, torse / già tutto il mondo quasi, sì che Giove, / Mercurio e Marte a nominar trascorse.” Paradiso, IV, 61-63), tuttavia, in tutta la terza Cantica, il poeta fa riferimento alla dottrina astronomica e astrologica tradizionale per ordinare in uno schema celeste le categorie di anime beate che incontra nel corso della sua ascesa attraverso i Cieli, ciascuno dei quali è presieduto e caratterizzato da un pianeta. Inoltre, come vedremo, Dante prende in considerazione un nono cielo, il Primo mobile, sede dello Zodiaco tropicale, quello che interessa l’Astrologia occidentale e moderna, sconosciuto alla formulazione aristotelica originale e inserito, solo successivamente, nel sistema tolemaico per spiegare l’inesorabile moto di precessione degli equinozi e, quindi, il fenomeno dello sfasamento avvenuto, nei secoli, tra i dodici Segni zodiacali e le relative Costellazioni, il cosiddetto Zodiaco siderale, oggetto, invece, della speculazione astrologica indiana.  L’Ordine astrologico dei Cieli nel Paradiso è il seguente: 1°) Cielo della Luna (Paradiso, Canti III-IV): Anime di coloro che non mantennero fede ai voti per cause esterne. Beati distolti dai voti. Piccarda Donati. Costanza d’Altavilla. Gerarchia angelica: Angeli.  2°) Cielo di Mercurio (Paradiso, Canti  V-VI-VII): Spiriti operanti che amarono la gloria. (“Questa picciola stella si correda / di buoni spirti che son stati attivi / perché onore e fama li succeda.” Paradiso, VI, 112-114) Giustiniano. Romeo da Villanova. Gerarchia angelica: Arcangeli. 3°) Cielo di Venere (Paradiso, Canti VIII-IX): Spiriti amanti. Carlo Martello. Cunizza da Romano.  Folco da Marsiglia. Raab. Gerarchia angelica: Principati. 4°) Cielo del Sole (Paradiso, Canti X-XI-XII-XIII): Spiriti sapienti. Tommaso d’Aquino. San Bonaventura. Salomone. Gerarchia angelica: Potestà. 5°) Cielo di Marte (Paradiso, Canti XIV-XV-XVI-XVII): Spiriti combattenti. Cacciaguida. Gerarchia angelica: Virtù. Nel Cielo di Marte, i versi fanno riferimento alla luce rossastra del pianeta che porta il nome dell’antico dio della guerra, indizio sicuro, per Dante, dell’avvenuto passaggio ad un Cielo più elevato: “Ben m’accors’io ch’io era più levato, per l’affocato riso de la stella, che mi parea più roggio che l’usato” (Paradiso, XIV, 85-87). 6°) Cielo di Giove (Paradiso, Canti XVIII-XIX-XX): Spiriti ardenti di carità. Anime di coloro che furono giusti e pii. Davide. Traiano. Gerarchia angelica: Dominazioni. In questo Cielo, i versi della Commedia confermano l’associazione tradizionale di Giove con la sfera della giustizia. Il pianeta è descritto come ‘giovial facella’ (Paradiso, XVIII, 70) e ‘dolce stella’: “O dolce stella, quali e quante gemme mi dimostraro che nostra giustizia effetto sia del ciel che tu ingemme!” (Paradiso, XVIII, 115-117). 7°) Cielo di Saturno (Paradiso, Canti XXI-XXII): Spiriti contemplanti. Benedetto da Norcia. Gerarchia angelica: Troni. Con il Settimo Cielo, del pianeta che porta il nome di Saturno, reggente dell’Età dell’oro, terminano gli incontri di Dante con singole categorie di beati. “Dentro al cristallo che ‘l vocabol porta, cerchiando il mondo, del suo caro duce sotto cui giacque ogne malizia morta, di color d’oro in che raggio traluce vid’io uno scaleo eretto in suso…” (Paradiso, XXI, 25-29). Superate le sfere cristalline dei sette pianeti, attraverso una scala luminosa e sempre sotto la guida di Beatrice, avviene la successiva ascensione nel Cielo delle Stelle fisse, in particolare, nella regione dei Gemelli, segno zodiacale di nascita del poeta. I versi che seguono descrivono questo luogo eccelso: “…in quant’io vidi ‘l segno che segue il Tauro e fui dentro da esso. O gloriose stelle, o lume pregno di gran virtù, dal quale io riconosco tutto, qual che si sia, il mio ingegno, con voi nasceva e s’ascondeva vosco quelli ch’è padre d’ogne mortal vita (i.e. il Sole in Gemelli), quand’io senti’ di prima l’aere tosco; e poi, quando mi fu grazia largita d’entrar ne l’alta rota che vi gira, la vostra region mi fu sortita.” (Paradiso, XXII, 110-120). Raggiunta la sfera dell’ottavo Cielo, siamo ancora in piena corrispondenza con l’originario modello di Aristotele, che considerava il piano delle Stelle fisse come limite estremo dell’universo fisico. Al di sopra di tutti i Cieli, infatti,doveva collocarsi la sede divina e quieta delle anime beate e, soprattutto, di Dio considerato come motore immobile del mondo. Tuttavia, è noto che nella cosmografia della Commedia, Dante prende in considerazione un nono Cielo, il Primo Mobile che imprime il movimento a tutti gli altri Cieli concentrici sottostanti. Infatti, superato questo margine della materia, egli può giungere all’Empireo, dimensione divina di eternità immobile e priva di spazio, che si pone al di là del cosmo: “… Noi siamo usciti fore del maggior corpo al ciel ch’è pura luce”. (Paradiso, XXX, 38-39). Al principio del Paradiso, nel secondo canto, troviamo la descrizione dei Cieli planetari, comprendente la sfera delle Stelle fisse: “La spera ottava vi dimostra molti lumi…” (Paradiso, II, 64-65). Nello stesso canto, più avanti, è spiegato in versi il funzionamento dell’intera ‘macchina’ celeste, a partire dal moto velocissimo del Primo mobile, che via via, nell’arco di ventiquattro ore, si trasmette alle sfere cristalline contenute all’interno, generando come una sorta di attrito che porta al rallentamento progressivo dei cieli planetari inferiori, da Saturno alla Luna. Rallentamento che viene percepito dalla Terra, immobile e posta al centro dell’intero universo, nella forma dei moti apparenti e relativi dei pianeti nel cielo notturno che, sulla Terra, riversano i loro influssi combinati insieme. “Dentro dal ciel de la divina pace (i.e. l’Empireo). “si gira un corpo ne la cui virtute l’esser di tutto suo contento giace. (i.e. il Primo mobile) Lo ciel seguente, c’ha tante vedute (i.e. stelle simili a occhi), quell’esser parte per diverse essenze, da lui distratte e da lui contenute. Li altri giron per varie differenze le distinzion che dentro da sé hanno dispongono a lor fini e lor semenze.  Questi organi del mondo così vanno, come tu vedi omai, di grado in grado, che di sù prendono e di sotto fanno”. (Paradiso, II, 112-123). Come sedi di Gerarchie angeliche, seguendo l’antica formulazione di Dionigi Aeropagita, l’ottavo Cielo delle Stelle fisse è presieduto dai Cherubini, mentre il nono Cielo, il Primo mobile, è presieduto dal Coro angelico dei Serafini. Esso è fatto di sostanza cristallina al pari di tutti gli altri Cieli in esso compresi e da esso trascinati, però è del tutto privo di luci o di maculazioni. Questo nono Cielo è il lembo estremo, purissimo, del mondo materiale, direttamente soggetto all’impulso divino (“real manto di tutti i volumi / del mondo”. Paradiso, XXIII, 112-113). In questo luogo si svolgono i Canti XXVII-XXX.  Sotto la guida di Beatrice, Dante vi perviene direttamente, passandovi dalla costellazione dei Gemelli (il nido di Leda, cioè i gemelli Castore e Polluce, figli di Leda). In Astronomia, il moto di precessione degli equinozi è una conseguenza dell’attrazione gravitazionale combinata del Sole e della Luna sulla rotazione terrestre tale da provocare, anno per anno, un leggerissimo anticipo degli equinozi e, dunque, quello slittamento quasi impercettibile dell’anno tropico rispetto alla posizione di riferimento delle costellazioni che, con il passare dei secoli, ha portato allo sganciamento tra i segni zodiacali e le costellazioni. E’ quel fenomeno che ha fatto sì che, attualmente, il grado zero dell’Ariete, detto anche Punto Vernale, ossia il punto dell’equinozio di primavera, coincide ormai con le stelle della costellazione dell’Acquario, dando vita, per esempio, a tutte le speculazioni astrologiche ed esoteriche contemporanee circa la cosiddetta Età dell’Acquario, inizio di un’Era di rinnovamento e pace. Si tratta di un moto estremamente lento, stimato in circa un grado ogni settantadue anni, che fanno ventiseimila anni per il compimento di un ciclo completo (il cosiddetto Anno platonico). La scoperta del moto di precessione viene attribuita all’astronomo greco Ipparco di Nicea (II° secolo a.C.), ma si tratta di un fenomeno forse già vagamente conosciuto in precedenza, suggerito dalle osservazioni dei Caldei che già distinguevano un Anno tropico – quello che coincide, di fatto, con il sistema astrologico dei dodici segni zodiacali – stimato in 365 giorni, 5 ore, 49 minuti e 30 secondi, da un Anno siderale, stimato in 365 giorni, 6 ore e 11 minuti. Il metodo utilizzato da Ipparco per definire matematicamente la precessione fu descritto da Tolomeo nell’Almagesto, il trattato scientifico più importante dell’Astronomia antica, giunto fino a noi grazie agli Arabi. Proprio tra gli astronomi arabi che studiarono il moto di precessione degli equinozi si distingue Thabit ibn Qurra che, sebbene diede un’interpretazione erronea, riproponendo una vecchia teoria di Teone di Alessandria (IV° secolo) – il quale ipotizzava una sorta di trepidazione dei cieli sommata alla precessione – tuttavia, giunse mirabilmente a fissare la durata dell’anno tropico con uno scarto di appena tre secondi rispetto alle misurazioni odierne e contribuì ad integrare il fenomeno della precessione degli equinozi nel sistema tolemaico delle sfere celesti concentriche, riconoscendo nel Primo mobile il Cielo trasparente dei dodici Segni zodiacali, sganciati dalle stesse Costellazioni che ne avevano fissato i nomi nella tradizione e divisi geometricamente in regioni celesti di trenta gradi esatti. Mi soffermo su Thabit ibn Qurra, poichè fu un uomo coltissimo e una grande figura di scienziato. Originario della città di Harran, situata nel sud dell’attuale Turchia, Thabit visse nel IX°secolo a Baghdad, centro del Califfato Abbaside e sede privilegiata per gli studi di matematica, medicina e astronomia. La sua città di origine, Harran, era il centro di una comunità allora molto influente, i cosiddetti Sabei, tra i quali si mantenevano vivi sia la filosofia greca della tarda antichità, sia il culto delle antiche divinità planetarie. Thabit, di madrelingua siriaca e profondo conoscitore dei testi scientifici greci, contribuì sostanzialmente alla traduzione in arabo dei principali trattati classici e, dunque, alla salvaguardia della scienza antica e del sapere medievale. Di questo materiale, tradotto successivamente in latino e confluito – soprattutto attraverso la Spagna – nella sapienza medievale europea, Dante Alighieri attinse i concetti principali e ne fece poesia.