la percezione del tempo

È una sensazione universale, quasi un luogo comune: crescendo, e invecchiando, il tempo sembra fuggire via molto più in fretta di quando si è giovani. Gli anni, che ai tempi della scuola sembravano durare un’eternità, da adulti trascorrono a una rapidità che ogni volta stupisce. Sono state fatte molte ipotesi per spiegare questa esperienza che sembra comune a tutte le culture e tutte le epoche. Una nuova, possibile spiegazione la propone Adrian Bejan (Duke University, Usa): alla base ci sarebbe un fenomeno fisico preciso, l’invecchiamento del cervello e della sua capacità di elaborare le informazioni. FRENATE E ACCELERAZIONI. È noto che la percezione del tempo può essere influenzata anche da fattori fisici. La temperatura, per esempio, è uno di questi. Lo psicologo Hudson Hoagland, negli anni Trenta, fu uno dei primi a notare che con la febbre il tempo sembra trascorrere più lentamente. Altre ricerche condotte sui sub durante le immersioni hanno mostrato un indirizzo analogo: la percezione del tempo variava a seconda che si immergessero in acque calde o fredde. Per quanto riguarda invece il rapporto tra età e percezione del tempo, finora sono state avanzate soprattutto spiegazioni di tipo psicologico. DA BAMBINI COME IN VACANZA. L’ipotesi prevalente, sostenuta anche da diverse ricerche, vuole che questa impressione sia strettamente dipendente dal tasso di cambiamenti di cui facciamo esperienza. Per esempio, da bambini “tutto è nuovo”, e questo sperimentare e imparare continuamente cose diverse rende il tempo “denso” e pieno, aumentando la sensazione della sua durata. Un po’ quello che succede in vacanza, quando la routine di tutti i giorni viene meno: con molte nuove esperienze da registrare, poi è come se la memoria ci ingannasse, facendoci credere che il periodo per cui abbiamo tanti ricordi debba essere durato più a lungo di quello che effettivamente è stato. Con l’età adulta, invece, diminuisce il tasso di novità nelle esperienze che viviamo, e la minore varietà si tradurrebbe nella sensazione che il tempo scorra più veloce. Il tempo scorre? Secondo alcuni, no: a dare la sensazione del flusso temporale è il “ticchettio” delle cellule cerebrali in funzione. L’OCCHIO DELLA MENTE. L’ipotesi di Adrian Bejan, docente di ingegneria meccanica, è descritta in un articolo dal titolo molto diretto (perché i giorni sembrano più brevi quando invecchiamo) in cui mira a fornire una spiegazione fisica di questa sensazione puramente psicologica. Secondo il ricercatore, che ha un approccio multidisciplinare e che in lavori precedenti ha sempre applicato concetti della fisica ad ambiti sociali e umani, il tempo di cui facciamo esperienza non rappresenta nient’altro che i cambiamenti da noi percepiti negli stimoli mentali. In sostanza, il tempo percepito sarebbe in stretta relazione con il numero e la frequenza delle immagini che il nostro cervello elabora. Fu lo psicologo russo Alfred Yarbus a introdurre negli anni Cinquanta e Sessanta il concetto di movimenti saccadici, registrando il movimento dell’occhio durante l’osservazione di immagini complesse. Bejan elabora l’idea a partire dai movimenti saccadici, quelli che compiamo con gli occhi diverse volte al secondo: sarebbero questi movimenti a dettare, anche a livello nervoso, il ritmo di ciò che il cervello “vede”, che non è un tutto continuo ma è suddiviso come in pacchetti, unità discrete. Nei bambini il numero dei movimenti saccadici è superiore, e quindi sono di più anche le immagini mentali processate. Via via che si invecchia, invece, rallentano i movimenti oculari, e anche l’elaborazione di immagini da parte del cervello. Il risultato finale – sostiene Bejan – è che, vedendo meno nuove immagini nello stesso lasso di tempo, i più anziani hanno la sensazione che il tempo trascorra più velocemente. CONSIGLI FACILI PER FERMARE IL TEMPO. Ci sarebbero poi anche altri fattori fisici che contribuiscono al fenomeno. Uno è ancora legato ai cambiamenti del sistema nervoso che avvengono con l’età: via via che, diventando adulti, si sviluppano connessioni nervose, il cammino che le informazioni compiono per essere elaborate dal cervello diventa più complicato. Anche questa complessità del percorso, secondo Bejan, modifica la percezione del tempo. E ancora, la stanchezza: influenzando (ovvero rallentando) i movimenti saccadici, contribuirebbe alla sensazione della fuga dei giorni e delle settimane. In questo caso il ricercatore azzarda anche qualche consiglio per mettere i freni al tempo: fare una vita sana e regolata, dormendo bene e senza stressarsi troppo. Rallenteranno gli anni? Forse si o forse no, ma di sicuro male non fa. PERCHÉ IL TEMPO VOLA QUANDO CI DIVERTIAMO – Uno studio ha individuato la possibile base biologica nel cervello della percezione rallentata o accelerata del tempo. Lo sanno anche i bambini: il tempo vola quando ci si diverte, non passa mai quando ci si annoia, si sta male o siamo tristi. Nonostante siano state proposte varie ipotesi per spiegare perché la percezione del tempo cambi a seconda delle emozioni che proviamo, non si sa ancora in che modo sia regolata nel cervello. Un gruppo di scienziati del Centro di ricerca Champalimaud di Lisbona pensa di avere individuato il meccanismo biologico che fa accelerare o rallentare il nostro orologio soggettivo: alla base di tutto ci sarebbe il neurotrasmettitore dopamina, la sostanza chimica associata alle sensazioni di piacere. TOPI COL CRONOMETRO. Per studiare come la dopamina possa influenzare il modo in cui percepiamo il tempo, i ricercatori sono partiti dai topi. Hanno prima addestrato gli animali, per alcuni mesi, a distinguere intervalli di tempo più brevi o più lunghi, un compito che all’inizio sembrava impossibile, ma in cui gli animali si sono dimostrati via via sempre più bravi. I topi sentivano prima un suono, poi un secondo suono e dovevano mettere, “per risposta”, il muso in una feritoia alla loro destra o alla sinistra, a seconda che l’intervallo che separava i suoni fosse più breve o più lungo di un secondo e mezzo. NEURONI FLUORESCENTI. Con tecniche di ingegneria genetica, gli scienziati hanno poi fatto in modo di rendere fluorescenti i neuroni produttori di dopamina in una particolare zona del cervello degli animali – la substantia nigra (in particolare la porzione compatta) – nel momento in cui si attivavano: in questo modo i ricercatori potevano misurare la produzione di dopamina. Il motivo della scelta di questa zona particolare del cervello è che si ritiene abbia a che fare con la percezione del tempo: è infatti una delle prime aree a essere danneggiate nei pazienti colpiti dal morbo di Parkinson, che hanno spesso anche un’alterata percezione del tempo. Continuando gli esperimenti con gli animali, la prima osservazione è stata che, dopo avere udito il tono, sia il primo sia il secondo, i neuroni avevano un picco di attività, e c’era dunque produzione di dopamina. Inoltre, più l’attività di questi neuroni era alta, più gli animali sembravano sottostimare l’intervallo di tempo ascoltato. Un indizio che, come altre ricerche avevano già suggerito, il neurotrasmettitore sia legato alla percezione del passaggio del tempo. DOPAMINA IN AZIONE. Gli scienziati hanno fatto allora un passo ulteriore: con tecniche di optogenetica hanno spento i neuroni produttori di dopamina – diminuendone la produzione – in un gruppo di topi, e li hanno accesi in un altro, aumentandola. A questo punto, hanno osservato quello che confermava l’ipotesi iniziale: se la produzione di dopamina era aumentata gli animali sottostimavano il passare del tempo; se era diminuita gli animali la sovrastimavano. Insomma, l’attività di questi neuroni sarebbe sufficiente ad alterare il modo in cui i topi percepiscono il tempo. VALE ANCHE PER NOI? Può darsi che lo stesso meccanismo regoli anche la nostra percezione del tempo. Siccome gli eventi piacevoli stimolano la produzione di dopamina nel cervello, il nostro orologio interno accelererebbe, facendoci sembrare più breve il tempo trascorso. Quando viceversa la produzione di dopamina è bassa, come in situazioni tristi o anche in malattie come la depressione, il tempo ci sembra trascorrere più lento. «C’è il cliché dei giovani innamorati che stanno alzati tutta la notte a chiacchierare e non si accorgono del tempo che passa», ha commentato Joe Paton, ricercatore e primo autore dell’articolo pubblicato su Science: «Potrebbero essere i neuroni dopaminergici a restringere il tempo in quel modo spettacolare.» (C. Palmerini). COME IL CERVELLO TIENE IL TEMPO – Una ricerca fa luce sul meccanismo neurale che permette di stimare il tempo che manca al compimento di un’azione. E rivela che i neuroni lavorano in sequenza per tener traccia fedele dei secondi che passano. Siete fermi al semaforo e il rosso è appena scattato: se iniziate subito ad accelerare sprecherete benzina, se aspettate troppo potreste partire in ritardo. Come fa il cervello a capire quanto tempo trascorso? La capacità di stimare il momento giusto per compiere un’azione dipende da un’innata abilità nel tenere traccia del tempo. Uno studio pubblicato su Current Biology fa luce sulle basi neurali di questo meccanismo. OROLOGIO NASCOSTO. Per andare alle origini del senso del tempo, i ricercatori del Champalimaud Neuroscience Programme di Lisbona si sono concentrati sulla regione cerebrale dello striato, una formazione di sostanza grigia situata alla base di ciascuno dei due emisferi cerebrali. Ricerche passate hanno dimostrato come questa struttura sia implicata nella determinazione del tempo: «Molte condizioni che colpiscono lo striato, come la malattia di Parkinson o di Huntington, causano un malfunzionamento nella capacità di stimare il tempo» spiega Joe Paton, a capo della ricerca. ASPETTA, E VEDRAI. Gli scienziati hanno istruito alcuni topi a premere una leva per ricevere una ricompensa, disponibile a intervalli regolari di tempo. Per esempio, durante una sequenza di 15 tentativi, la ricompensa veniva data soltanto dopo 30 secondi dal rilascio della ricompensa precedente. Dopo ogni sessione, la distanza temporale tra due ricompense veniva aumentata o diminuita, per studiare la capacità dei topi ad adattarsi alla nuova stima del tempo. COME UNA “OLA”. I topi si sono comportati un po’ come un umano al volante, e hanno preferito non premere la leva se non quando il rilascio della ricompensa era più che vicino. L’analisi dell’attività dei neuroni dello striato ha rivelato che la rappresentazione del tempo è ben rintracciabile nelle risposte individuali di questa popolazione di cellule nervose. «Ogni volta che iniziava una prova, i neuroni hanno iniziato a rispondere in sequenza, come in un’onda lenta, ma affidabile di attività sequenziali» spiega Sofia Soares, coinvolta nello studio. COPIA FEDELE. «La stessa sequenza si è conservata durante i diversi intervalli di tempo, ma ha cambiato ritmo. Per esempio, quando l’attesa era maggiore, la sequenza è risultata più lenta, e viceversa, espandendosi e restringendosi in base alla distanza temporale tra la ricompensa e la risposta dell’animale. Basterebbe guardare dove si trova quest’onda all’interno della popolazione di neuroni per capire quanto tempo è passato». RELATIVO. Per i ricercatori ciò dimostrerebbe che il tempo nel cervello «è relativo, non assoluto, e si misura come una posizione all’interno di un intervallo, e non come un’unità, come un’ora o un secondo». La ricerca dimostra, inoltre, che i neuroni dello striato combinano informazioni motorie e temporali; una combinazione compatibile con alcune delle funzioni in cui questa regione è implicata, come l’apprendimento motorio e il controllo delle azioni. (E. Intini) POSSIAMO VEDERE IL PASSAGGIO DEL TEMPO? Nella retina abbiamo cellule che permettono di “vedere” il passare del tempo. Alcuni test sui topi hanno mostrato che cosa accade quando funzionano male. I topi hanno un orologio nell’occhio che li avverto quando è ora di alzarsi, di andare a letto, di mangiare. La scoperta viene da due ricercatori americani, Satchidananda Panda del Salk Institute di San Diego e Samer Hattar della Johns Hopkins University di Baltimora, che hanno scoperto come un gruppo di cellule presenti sulla retina dell’animale, superflue per la vista, giocano un ruolo indispensabile nel mantenimento dei ritmi biologici. Disattivando queste cellule gli scienziati hanno infatti notato che, senza alcuna riduzione delle facoltà visive, i topi perdono il senso del giorno e della notte, restando svegli tutto il giorno. Finora non è mai stato dimostrato che l’insonnia umana possa dipendere da difetti di cellule analoghe, presenti anche nella nostra retina. Secondo gli scienziati è però probabile che presto si scoprirà qualcosa di simile, un risultato che si rivelerebbe decisamente importante nell’identificazione di nuove cure per l’insonnia. (A.Porta) COME PASSA IL TEMPO NEL CERVELLO – Quando si è a una festa il tempo passa velocemente, in fila alle poste invece il tempo non passa mai. Ma qual è il meccanismo alla base della diversa percezione dello scorrere del tempo? Hanno provato a spiegarlo alcuni ricercatori con un esperimento. Scoprendo che nel nostro cervello non c’è un solo orologio ma tanti, che “funzionano” in base ai diversi stimoli sensoriali. Avete mai notato guardando a lungo un semaforo lampeggiante che già dopo pochi secondi l’intermittenza sembra sempre più rapida? Ma se si sposta momentaneamente lo sguardo su un altro oggetto e poi si guarda di nuovo il semaforo questo sembra tornare a lampeggiare più lentamente. In realtà il semaforo lampeggia sempre nello stesso modo, siamo noi che lo percepiamo diversamente. E questa percezione visiva altera anche il nostro senso dello scorrere del tempo. È quello che hanno scoperto alcuni ricercatori del San Raffaele di Milano in collaborazione con la University of Western Australia, l’Università di Firenze e il CNR di Pisa, che ha dimostrato come la percezione del tempo da parte del nostro cervello dipende da dove guardiamo. QUESTIONE DI ADATTAMENTO. Alla base del fenomeno ci sarebbe una funzione di adattamento sensoriale: dopo una prolungata stimolazione il cervello si adatta e diventa meno reattivo. Quello che succede per esempio quando in un luogo c’è una illuminazione troppo intensa: inizialmente è fastidiosa ma dopo un po’ gli occhi si “abituano”, oppure con gli odori forti che a un certo punto quasi non si sentono più. Nell’esperimento i ricercatori hanno osservato un gruppo di volontari mentre guardavano su un monitor alcune barre bianche e nere che apparivano in modo casuale e si muovevano velocemente. Dopo qualche secondo ciascun volontario doveva valutare per quanto tempo ognuna delle barre era rimasta visibile sullo schermo. Tutti i soggetti erano portati a sottostimare il tempo di permanenza della barra di un certo colore, quando questa appariva e scompariva per più volte di seguito nella stessa posizione. Come se vederla per più tempo, facesse scorrere il tempo più velocemente. GLI OROLOGI DEL CERVELLO. Il risultato dell’esperimento, secondo i ricercatori, mette in evidenza che il senso dello scorrere del tempo è frutto di un meccanismo diffuso in tutto il cervello e non in una sola area. Probabilmente nella testa abbiamo tanti orologi indipendenti, “tarati” su ogni singolo stimolo sensoriale, che – in base allo stimolo stesso – dilatano o comprimono il tempo. Questo meccanismo complesso, secondo i ricercatori, ci permette di svolgere diversi compiti in contemporanea, come guidare l’auto in mezzo al traffico mentre si sta pensando a tutt’altro. Quasi come se vivessimo due “dimensioni” parallele. IL FUTURO DAVANTI E IL PASSATO DIETRO – Per il nostro cervello, il tempo è la linea immaginaria su cui ci muoviamo camminando: un concetto astratto derivato da esperienze e percezioni fisiche. «Hai tutto il futuro davanti» si dice a chi è giovane. E non è solo un modo di dire. Il nostro cervello rappresenta davvero il passato come lo spazio che ci lasciamo alle spalle, e il futuro come quello cui andiamo incontro camminando. È quanto emerge da uno studio di ricercatori dell’Università di Milano Bicocca, che per la sua originalità si è guadagnato la copertina di Cortex, un’autorevole rivista dedicata alle neuroscienze cognitive. IN AVANTI O ALL’INDIETRO. I ricercatori hanno studiato come le persone si rappresentano il tempo rispetto al corpo in movimento, mentre camminano, con un esperimento così congegnato. A 19 volontari, bendati e privi di riferimenti visivi e spaziali, è stato chiesto di classificare alcune parole che si riferivano a concetti temporali legati al passato, per esempio “ieri”, o “prima”, facendo un passo indietro, oppure al futuro, del tipo “domani”, o “dopo”, facendone uno in avanti. In una seduta successiva dell’esperimento, è stato chiesto di invertire la risposta al comando, facendo un passo indietro se la parola si riferiva al futuro, in avanti se al passato. La velocità con cui le persone facevano il passo, e il tempo di reazione al comando, è stata misurata con un particolare sistema per l’analisi del movimento fatta da telecamere ad alta definizione che riprendevano alcuni marker posti vicino al ginocchio e al piede destro dei partecipanti. I ricercatori hanno così osservato che quando la parola indicava il futuro e il comando era di muoversi in avanti (o il passato e il muoversi indietro) i volontari erano più svelti sia a partire con il piede, sia a compiere il movimento. Quando viceversa i comandi erano invertiti, i volontari avevano un ritardo, una sorta di esitazione a iniziare il movimento. La differenza misurata è stata considerevole dal punto di vista di questo genere di test, circa 200 millisecondi. TEMPO SPAZIALIZZATO. Secondo gli autori dello studio questo dimostra come il dominio intangibile del tempo si traduca per noi in quello molto più concreto dello spazio, e come questo avvenga proprio attraverso le azioni del nostro corpo nel mondo fisico. «Questo studio – spiegano gli autori, Luca Rinaldi e Luisa Girelli dell’Università di Milano Bicocca – suggerisce che la rappresentazione di un concetto astratto, come quello del tempo, derivi da esperienze sensori-motorie, quali quella del cammino. Quando camminiamo, infatti, lasciamo fisicamente il passato alle nostre spalle e avanziamo verso il futuro: in questo senso, anche il nostro parlare del tempo in termini spaziali potrebbe avere origine da questa esperienza corporea». (C. Palmerini) Il tempo scorre. Secondo i latini addirittura fugge. Alcuni si chiedono se esiste o se sia solo un artifizio culturale creato dall’uomo. Mentre Einstein lo considerava la quarta dimensione, e la filosofia talvolta lo pone alla base della crescita e talvolta addirittura lo nega, le neuroscienze cercano di trovarne una definizione in base agli effetti sul comportamento e sui processi cerebrali. Anche se le neuroscienze non hanno dato ancora risposte definitive, pare che esistano differenti orologi interni per tre scale temporali, sui quali influiscono i neurotrasmettitori Dopamina e Acetilcolina. È da tempo conosciuto l’orologio circadiano, responsabile della regolazione dei ritmi sonno/veglia e dell’appetito, il quale coinvolge il nucleo soprachiasmatico. Il secondo orologio si occuperebbe degli intervalli tra i secondi e le ore, come quando ci chiediamo quanto manca all’ora di pranzo o se faremo in tempo a prendere il treno. Di tale difficile compito è responsabile una rete di aree cerebrali quali i gangli basali, l’area supplementare motoria, e le cortecce associative prefrontali e parietali. Infine, esiste un timer dell’ordine dei millisecondi, localizzato nel cervelletto, che si occuperebbe di regolare il controllo motorio. Possiamo elaborare gli eventi con una buona precisione: basti pensare alla fine discriminazione con cui si percepiscono errori nel doppiaggio di un film, o nella produzione di sequenze motorie complesse come suonare il pianoforte. Nonostante queste abilità, il nostro sistema cognitivo è poco affidabile: ad esempio, il tempo ci sembra troppo veloce quando ci divertiamo, mentre sembra non passare mai quando ci annoiamo. Uno degli effetti più stabili è il “temporal order error”: gli intervalli sotto al secondo sono vissuti come più veloci di quanto siano, mentre quelli sopra il secondo sono vissuti come più lenti. Infatti, quando scatta il verde siamo velocissimi a suonare il clacson se l’auto davanti tarda a partire, mentre i pochissimi secondi del giallo si dilatano fino a permetterci di passare “almeno dieci volte”! I giudizi temporali quali durata, ordine, simultaneità, sono continuamente soggetti a distorsioni, per lo più dovute a interferenze di un livello attentivo insufficiente, o di un’alta carica emotiva. È facilmente intuibile come quando si è stanchi o distratti dalla televisione o accalorati per una discussione sia più difficile accorgersi di quanto tempo sia passato. Ma di quanto si sbaglia? In che direzione? In quali condizioni la prestazione è peggiore? La risposta a queste domande permetterebbe di sviluppare dei “correttivi”, particolarmente utili per i cosiddetti ritardatari cronici. Non solo: pazienti con morbo di Parkinson, schizofrenici, o bambini con disturbo da attenzione e iperattività mostrano problemi nella stima del tempo, e con riabilitazioni specifiche si potrebbero migliorare le loro condizioni. Il vecchio adagio “chi ha tempo ha vita” ben rappresenta le neuroscienze del tempo. (D.Basso) Quante volte l’abbiamo sentito dire da persone più grandi “Il tempo corre quando più si invecchia” e quante volte ne abbiamo riso, prima di scoprire, crescendo a nostra volta, che è davvero così? La percezione dello scorrere del tempo cambia in relazione all’età: il postulato si chiama ‘teoria proporzionale’ e non è affatto un modo di dire. Prima di analizzare le diverse modalità di percezione dello scorrere del tempo, va chiarito che un conto è quello misurato tramite strumenti (orologi, cronometri, calendari), un altro conto è quello percepito ‘emotivamente’. Un esempio? Un’ora misura sempre 60 minuti, ma se la si trascorre divertendosi, sembra un momento molto più breve rispetto allo stesso intervallo di tempo, quando ci si annoia. Non solo la percezione del tempo varia da persona a persona, ma anche da una situazione a un’altra, con conseguenti differenze: il tempo può ‘non passare mai’, trascorrere normalmente, o correre a spron battuto. In realtà, il tempo passa sempre allo stesso modo (secondo le misurazioni degli strumenti umani): a cambiare, siamo noi. Strumenti di misurazione e misure individuali. L’uomo ha inventato tanti strumenti per “gestire” e misurare il trascorrere del tempo, che è stato suddiviso in (quattro) stagioni, mesi e anni sulla base del calendario. Gli orologi scompongono il tempo in unità di misure sempre più piccole, fino ai millesimi di secondo e così via. Tuttavia, oltre a questi strumenti “oggettivi” e condivisi, ne esiste un altro, un “orologio interno”, che invece è profondamente individuale e che determina, per esempio, i nostri ritmi circadiani (sonno/veglia) e che permette di registrare la durata degli eventi in modo particolare, cioè in confronto ai ricordi. In questo modo, mano a mano che cresciamo, costruiamo una specie di banca dati che ci indica cosa significa un minuto, un’ora, un giorno. Quello che di solito inizia come la capacità del nostro cervello di registrare brevi periodi – da minuti a secondi – si trasforma nella comprensione del flusso del tempo nel corso della vita. Ma questo “orologio” non ha la stessa precisione e oggettività degli altri strumenti usati per misurare il tempo. Gli stati d’animo alterano il trascorrere del tempo. Potrebbe sembrare scontato dirlo, ma in effetti la percezione individuale del trascorrere del tempo è fortemente condizionata dalle condizioni emotive e fisiche. Il tempo sembra non passare mai o scorrere più lentamente quando siamo annoiati, tristi o malati, cioè quando viviamo situazioni negative che a loro volta ci bloccano. Al contrario, in altre situazioni (di divertimento, felicità, ma anche di grande concentrazione), il tempo sembra accelerare notevolmente nel suo scorrimento. La paura, in quanto stato d’animo negativo, ha un effetto particolarmente potente sul tempo: rallenta il nostro ‘orologio interno’ al punto che la durata dell’evento pauroso si dilata notevolmente. L’età e l’orologio interno. Oltre che per gli stati d’animo, la percezione de tempo che passa cambia anche in relazione all’età. Le persone di età superiore ai 60 anni spesso riferiscono delle differenze: Natale sembra arrivare prima ogni anno, mentre spesso le giornate si fanno insolitamente lunghe. Questione d’età. Le anomalie della percezione del tempo quando si cresce riguardano serie di processi cognitivi, tra cui quanta attenzione possiamo dedicare ad un compito particolare e quanto efficacemente possiamo dividere la nostra attenzione tra più attività in corso in contemporanea. La nostra efficienza in questi domini diminuisce gradualmente con l’età e può influenzare la percezione soggettiva del tempo. Soprattutto, il nostro quadro di riferimento per la durata degli eventi cambia anche con l’avanzare dell’età. I ricordi che abbiamo memorizzato durante tutta la nostra vita ci consentono di creare una linea temporale personale. Su questa osservazione si basa la cosiddetta “teoria proporzionale”, secondo cui con l’età, cambia la percezione del tempo “presente”, come se diventasse più breve rispetto alla durata dell’intera vita. Teoria proporzionale. Un modo intuitivo per comprendere la ‘teoria proporzionale’ è pensare alla percezione di un anno per una persona di 75 anni e di un bambino di dieci: rispetto all’esistenza dell’anziano, un anno è molto breve, rispetto a chi ha solo dieci anni di vita alle spalle. Il ruolo della memoria. A proposito di processi cognitivi, la memoria è una chiave per la percezione del tempo: più un ricordo è nitido, meglio lo si percepisce in relazione al trascorrere del tempo e alla definizione di noi stessi in rapporto alle esperienze vissute. Per esempio, le esperienze che in genere si ricordano con maggiore precisione sono quelle che si verificano tra i 15 e i 25 anni, gli anni della formazione, a cui è associato un aumento della memoria di auto-definizione. Mano a mano che si cresce e ci si allontana da quel periodo, il tempo sembra scorrere più velocemente. Alterazioni patologiche. Ovviamente, alcune condizioni cliniche possono alterare la percezione del tempo: disturbi dello sviluppo, come il disturbo autismo e da deficit di attenzione e iperattività, per esempio, sono spesso associati alla difficoltà di stimare con precisione gli intervalli di tempo. All’estremo opposto, al morbo di Alzheimer e al morbo di Parkinson sono anche associati difficoltà a viaggiare indietro nel tempo personale per ricordare il passato e inesattezze nella stima di intervalli di tempo brevi. Rallentare, per favore. Migliorare le capacità cognitive, per esempio la memoria e la concentrazione, può raffinare l’orologio interno. Stesso discorso per la meditazione e la consapevolezza del ‘qui e ora’, che sono approcci utili per una gestione più serena (e lenta!) del tempo, percepito con l’orologio interno’.