La lettera a Hitler. Storia di Armin T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del Novecento

ARMIN T. WEGNER (1886 – 1978) “La mia coscienza mi chiama ad essere testimone. Io sono la voce degli esiliati che grida nel deserto”.(A.T.Wegner) Un giorno nel 1965 Johanna, una studentessa universitaria tedesca in cerca di un’occupazione a Roma, legge sul “Messaggero” un’inserzione: “Poeta tedesco ricerca segretaria tedesca“. Poco dopo essere stata assunta, il sedicente poeta le detta una lunga lettera in difesa degli ebrei che sostiene di aver scritto e spedito a Hitler nel 1933, e le chiede di inviarla a centinaia di indirizzi tedeschi, fra cui quelli di alcuni giornali. Johanna è convinta di avere di fronte un millantatore, ma dovrà ricredersi quando, tornata in Germania, si metterà a indagare sul suo datore di lavoro, ripercorrendo così passo passo la vita di Armin T. Wegner, scrittore e strenuo difensore dei diritti umani, riconosciuto dagli armeni come “giusto” per essere stato uno dei primi a denunciare il dramma del loro popolo: il genocidio del 1915-16. Quello stesso riconoscimento Armin lo aveva ricevuto nel 1967 anche in Israele, con un albero nel giardino dei giusti di Yad Vashem, proprio per la lettera al Führer e la denuncia delle leggi antisemite. Gabriele Nissim ne ha ricostruito la straordinaria vita, anche sulla base delle tante lettere custodite negli archivi di famiglia. Dopo aver servito nell’esercito tedesco, alleato dei Giovani Turchi, come ufficiale medico durante la Prima guerra mondiale – e aver assistito come testimone diretto al genocidio degli armeni (sono sue le uniche fotografie esistenti dello sterminio) -, a metà degli anni Venti Wegner diventa comunista. Si appellò ai leader del suo tempo per fermare i genocidi contro gli armeni e gli ebrei. Armin Theophil Wegner, nasce a Wuppertal nel 1886, discendente, per parte di padre, da una famiglia di rigide tradizioni prussiane, mentre, per parte di madre, Marie Witt, discende da una famiglia impegnata nei movimenti pacifisti di fine Ottocento, formandosi sin da piccolo ai valori della libertà e difesa dei diritti umani. Le sue scelte sono orientate, fin dalla giovinezza, alla ricerca della verità su se stesso e sui rapporti umani e alle domande fondamentali sul significato dell’esistenza. Le sue precoci esperienze di lavoro e i viaggi che compie in Europa sospendendo per brevi periodi gli studi, lo portano ad avvicinarsi ai circoli liberali e a porre, da subito, la sua creatività letteraria e poetica (pur avendo completato gli studi giuridici per volontà paterna) al servizio dell’ impegno sociale. In Armin Wegner l’attaccamento alla Germania fu sempre forte, ma non disgiunto da una vigorosa autonomia di pensiero cui mai rinuncerà, anche operando severe autocritiche quando i propri ideali vengono smentiti dai fatti. Così accade dopo il suo viaggio a Mosca del 1927, durante il quale ebbe modo di constatare il tradimento degli ideali socialisti da parte dei protagonisti della rivoluzione del 1917. Da alcune notazioni autobiografiche relative ad episodi della sua adolescenza è possibile ricavare i tratti di una personalità generosa, la capacità di un pensiero autonomo e risalire alle origini del suo impegno sociale. Sfidando il pericolo e senza esitazione, si getta nel Reno per salvare una ragazza; inoltre appartiene al periodo scolastico la scoperta di quanto fosse difficile per un ”diverso”, in questo caso un ragazzino ebreo, essere riconosciuto e accettato. In classe e fuori, durante l’intervallo, Armin Wegner si avvicina a questo compagno, lasciato solo, e diventa il suo unico amico. Una relazione facilitata dal sentirsi entrambi esclusi. Una diversità che Wegner avverte legata alla sua vocazione artistica (cfr. “Il rapporto di  Armin T. Wegner con l’ebraismo”, dall’intervista rilasciata a Martin Rooney nel 1972, in Armin T. Wegner e gli Armeni in Anatolia, 1915. Immagini e testimonianze, Guerini, Milano 1996, pag. 167). L’esperienza della guerra che lo vede volontario nel servizio sanitario tedesco, prima sul fronte polacco poi in Medio  Oriente nell’aprile del 1915 lo segna profondamente. La Germania è alleata con l’impero ottomano. Nel 1915 Wegner ha 29 anni, anni cruciali della sua vita. Intellettuale con vocazioni poetiche già definite, giovane tedesco fiero delle tradizioni prussiane, aspira a sperimentarsi in imprese irripetibili, straordinarie: “sono diventato un soldato, ho messo in gioco la mia vita per i valori della mia anima”, annota nel diario. Ma improvvisamente la tragedia irrompe nella sua esistenza segnandola per sempre. Nel deserto della Mesopotamia, di fronte ai volti sofferenti, agli appelli strazianti dei deportati armeni sente di non poter eludere la domanda cruciale. Davanti a lui esseri umani, i volti delle vittime innocenti, donne, vecchi, bambini, non un’astratta umanità sofferente e lontana. Aveva coltivato speranze e illusioni che sono cadute di fronte al mondo che ha visto, di fronte al male radicale, e ha detto no. Ha detto no alla disumanizzazione delle vittime e ha accettato di fare propria la loro condizione umana. Percorrendo assieme al popolo armeno “la via senza ritorno” con destinazione “il nulla”, eludendo le ordinanze  e i divieti delle autorità ottimane e tedesche dirette a impedire la diffusione di notizie sulle carovane dei deportati, è entrato nei campi, scatta fotografie, raccoglie lettere di supplica riuscendo a recapitarle alle ambasciate o ai consolati e scrive una diario che per il popolo armeno costituisce una testimonianza preziosa. Una lettera alla madre del 1916 sui massacri e sulle atrocità di cui è stato testimone viene intercettata dalla censura tedesca e gli costa un ordine di servizio nelle baracche degli ammalati di colera a Baghdad dove contrae la malattia. Viene rimandato a Costantinopoli. Nascoste sotto la cintola, porta con sé le fotografie e il diario. Nel dicembre del 1916 è espulso e ritorna in Germania. In patria si spende in conferenze, dibattiti, appelli indirizzati ai potenti per invocare pietà per le vittime. Nel gennaio del  1919 esce a Berlino la prima edizione della raccolta di lettere scritte dal deserto dell’Anatolia, Der Weg ohne Heimkher. Ein Martyrium in Briefe, (La via senza ritorno. Un martirio in lettere). Tutta la sua vita è votata alla memoria dei crimini e alla resistenza contro i nuovi crimini. In lui si è creata una congiunzione tra la tragedia armena e la tragedia ebraica, come ci testimoniano le lettere indirizzate a Wilson nel 1919, per chiedere una patria per gli armeni  e a Hitler nell’aprile del 1933, per invocare la fine della propaganda antiebraica del regime. I costi personali sono alti: è arrestato dalla Gestapo e imprigionato. Rilasciato nella primavera del 1934, percorre la via dell’esilio: Inghilterra, Palestina con la prima moglie ebrea Lola Landau e infine l’Italia.  Scrive Wegner : “La Germania  mi ha preso tutto: la mia casa, il mio successo, la mia libertà, il mio lavoro, i miei amici, la mia casa natale e tutto quanto avevo di più caro. In ultimo la Germania mi ha tolto mia moglie; e questo è il paese che io continuo ad amare, nonostante tutto!”. Giunge in Italia nel 1936, prima a Vietri e poi a Positano, rifugio di molti intellettuali europei. Fino all’emanazione delle leggi razziali del 1938, l’Italia viveva un clima di relativa tolleranza, poi la situazione si deteriora. Wegner, con altri intellettuali, viene arrestato, sia pure per poche settimane. È una misura precauzionale per la visita di Hitler. Riemergono i traumi del lager  vissuti in Germania e la memoria dell’orrore dei massacri degli armeni, impressa in lui in maniera indelebile. L’urlo notturno che il figlio Mischa ricorda ancora con profonda angoscia è il segno visibile di ferite mai rimarginate, cui si aggiunge il senso di perdita della sua identità di scrittore. Negli anni cruciali della guerra, dal 1941 al 1943, vive, dopo aver modificato in parte il suo nome, a Padova, con un incarico di insegnamento all’Accademia Germanica. Con la liberazione ritorna a Positano e poi a Roma e a Stromboli. Wegner non riuscirà mai ad adattarsi all’esilio, non riuscirà a ricomporre la divisione interna riguardo alla patria di origine, la Germania, per la quale continua a nutrire un forte attaccamento, e insieme con un sentimento di estraneità che gli rende impossibile il ritorno. Il silenzio che si era creato attorno al testimone viene rotto nel 1965. La commemorazione del 50° anniversario del genocidio degli armeni  è l’occasione perché la stampa scopra finalmente la sua  documentazione fotografica, il suo ruolo di testimone, il suo impegno nella difesa della verità e dei diritti umani. Onorificenze gli vengono date dalla sua città natale Wuppertal, nella Repubblica Federale Tedesca;  nel 1968 viene insignito del titolo di “giusto” dallo Yad Vashem  in Israele e dell’ordine di S. Gregorio a Yerevan, capitale dell’Armenia, dove una strada porta il suo nome. Dedica il resto della via all’impegno letterario e di testimonianza nelle varie sedi internazionali, in Europa e negli Stati Uniti, sempre accompagnato da un rimpianto profondo per ciò che poteva essere e non è stato. È il prezzo che Wegner ha pagato per non rinunciare a pensare, a giudicare, per  aver scelto di opporsi al male. Non era un santo né un eroe. Era un essere umano capace di mettere il rispetto di sé e la ricerca della verità al primo posto. Armin Wegner è un giusto che ha scelto di non mettersi nella condizione di doversi disprezzare. Le sue fotografie e il suo impegno di testimonianza non sono una semplice narrazione di un evento storico. Implicano riflessioni sui valori, sulle scelte di fondo nel passato e nel presente, sulla “impenetrabilità” di certi atti compiuti dall’uomo. Ha documentato, a rischio della vita, gli eventi tragici dello sterminio di un popolo. Anche nei confronti della rivoluzione sovietica Armin ha mantenuto lo stesso atteggiamento dettato dalla sua onestà intellettuale e dalla sensibilità verso le ingiustizie del mondo. Dopo un primo innamoramento per gli ideali della rivoluzione, la piega degli avvenimenti lo convince a protestare duramente contro le nuove persecuzioni che attraversano l’Unione Sovietica e a invocare la non violenza come unica arma capace di dare una speranza all’Umanità. Armin T. Wegner è un testimone prezioso per gli armeni sopravvissuti, che devono fare i conti con l’ostinato negazionismo della Turchia. Le testimonianze sono basate sulla verità individuale, sono potenti per l’ansia di verità che le accompagna, ma sono anche le più esposte alla negazione.  Armin T. Wegner muore a Roma nel 1978 all’età di 92 anni. A Stromboli, sul soffitto della sua stanza di lavoro si possono leggere queste parole: “Ci è stato affidato il compito di lavorare ad un’opera, ma non ci è dato di completarla”. Il 21 aprile del  1996 Pietro Kuciukian e  Mischa, il figlio, hanno trasportato le ceneri  di Armin  T. Wegner a Yerevan: il primo “giusto e testimone” per gli armeni le cui ceneri sono state  tumulate  nel Muro della Memoria di Dzidzernagapert. Dal 7 aprile 2011 a Armin Wegner sono dedicati un albero e un cippo al Giardino dei Giusti di tutto il mondo di Milano. A cento anni dal genocidio, il 21 aprile 2015 è uscito il libro di Gabriele Nissim La lettera a Hitler. Storia di Armin. T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del ‘900 (Mondadori), che ripercorre la vita e il pensiero dello scrittore tedesco, spirito libero che ha saputo vedere il male e ha cercato di contrastarlo ovunque si manifestasse nel mondo. Il genocidio armeno è il tema dell’album Armin T. Wegner (K. Records) composto dal musicista Gabriel Wegner in memoria del nonno Armin Theophil Wegner, scrittore, poeta, giornalista-attivista dei diritti umani tedesco (Wuppertal 1886 – Roma 1978), passato alla storia come testimone della deportazione degli armeni avvenuta nel primo quindicennio del XX secolo. In qualità di militare paramedico distaccato nei territori dell’Impero ottomano durante la Prima guerra mondiale, Armin Wegner non rimase indifferente alle persecuzioni a cui assisteva, ma volle raccontarle e, a rischio della vita, anche documentarle con una serie di drammatiche fotografie, un vero reportage dell’orrore del primo genocidio del ‘900. La sua battaglia umanitaria continuò anche dopo il rientro in Germania, dove osò esprimere un’opposizione al regime nazista, indirizzando a Hitler un’appassionata lettera di protesta contro i comportamenti del regime nei confronti degli ebrei. Fu arrestato e torturato dalle SS. Rilasciato nella primavera del 1934, andò in esilio in Inghilterra, poi in Palestina e infine in Italia. Una figura che ha ispirato il nipote Gabriel, cantautore emergente che ha fatto parte di varie rock-band dell’Underground romano affrontando stili e generi musicali diversi, proposti anche in questo album, uscito nel 2020 e composto assieme a Giovanni Luca Scaglione ed eseguito anche con il contributo di Valerio Giovanardi. Il disco contiene brani come Genocide e Poet in Dead Town, evocativi della vicenda che ebbe il suo culmine nel 1915 con la deportazione degli armeni nel deserto della Mesopotamia. Molti i riconoscimenti attribuiti ad Armin Wegner, a partire dal titolo di Giusto fra le Nazioni di Yad Vashem conferitogli nel 1967. La sua vita e il suo pensiero sono stati raccontati nel libro La lettera a Hitler. Storia di Armin. T. Wegner, combattente solitario contro i genocidi del ‘900 (Mondadori, 2015) scritto da Gabriele Nissim – saggista e giornalista, presidente della Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti -, e pubblicato in occasione del centenario del genocidio.