STORIA DELLA MAGIA NEL MEDIOEVO – CABALA E ALCHIMIA: DUE SENTIERI CELESTI  

Il nome Qabbalah, italianizzato in Cabala (1), significa in ebraico “tradizione”. Se prendiamo il termine in senso lato, esso si riferisce a tutta la mistica ebraica a partire dal I secolo a. C.; in un senso più restrittivo, invece, indica quella particolare mistica sviluppatasi in Provenza, in Germania e soprattutto in Spagna in un periodo ben preciso, che va dal 1200 al 1500. La Cabala classica era una religione mistica, che influì in modo molto profondo sulla vita dell’intero popolo ebraico; essa diede una nuova interpretazione all’insieme delle leggende e dei miti popolari ebraici. Si pensava che fosse la visione nascosta delle cose, tramandata in segreto per generazioni dai saggi: essa era fondata su uno speciale rapporto con la divinità, fatto di una percezione immediata ed un’esperienza diretta della presenza divina, che forniva all’uomo una via per superare il divario fra finito e infinito. Per i Cabalisti non era necessario morire perché l’anima salisse fino a Dio; infatti essi potevano servirsi delle “trentadue vie di saggezza segreta” per fare di se stessi degli dei in terra. Queste vie erano costituite dai dieci numeri primordiali, i Sephiroth, e dalle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico; per mezzo loro Dio aveva creato tutto ciò che esisteva. Infatti all’inizio dei tempi esistevano solo Dio e il Nulla Primordiale; egli mandò nel Nulla una sua emanazione sotto forma di luce e da questa vennero, a catena, altre emanazioni, dieci in tutto. I Sephiroth erano quindi parte di Dio, sfaccettature della personalità divina, e fornivano all’uomo un sentiero per tornare a Dio, essendo energie intermedie fra il Creatore e il creato. Nella sua risalita, il Cabalista passava per ogni Sephira e ne acquisiva le caratteristiche; quindi se la Cabala era una ricerca di Dio, era anche un tentativo di ottenere poteri magici. I Sephiroth venivano mostrati con una figura, detta “albero della vita”, che indicava lo schema occulto dell’universo ed in cui poteva essere classificato tutto. 1- Kether (suprema corona) è la prima emanazione; rappresenta la forza di Dio, considerato il Primum Mobile, la Causa Prima. Corrisponde allo Zeus greco; i suoi simboli sono la corona, la regalità. 2- Hokmah (sapienza) è un principio maschile, attivo, positivo, forza che origina ogni attività, ogni evoluzione. Simboleggia lo spirito dispensatore di vita, il verbo creatore. Corrisponde a Urano. I suoi simboli sono la torre e la linea retta. 3- Binah (comprensione) è un principio femminile, passivo, le acque del caos che verranno fecondate e daranno origine a tutto. Le sue divinità sono le dee madri; i suo simboli la coppa, il rombo, il circolo. 4- Chesed (amore) è un principio maschile e rappresenta la forza che ordina le cose e che le edifica, il padre che protegge il figlio, la giustizia, la pace, l’amore, la benevolenza. Suoi simboli sono lo scettro e la bacchetta. 5- Geburah (potere) è un principio femminile e corrisponde a Marte; ricordiamo che le corrispondenze cabalistiche ed astrologiche spesso non coincidono. E’ l’autorità della madre che da la disciplina; i suoi simboli sono la spada e la frusta. 6- Tiphereth (bellezza) è la sfera del sole, che deve equilibrare i due precedenti, costruttore e distruttore; è l’energia, la forza vitale; rappresenta Cristo perché discende direttamente da Kether; i suoi simboli sono la croce e il cubo a sei facce. 7- Netzah (pazienza) è un principio maschile; rappresenta l’eternità di Dio, le forze stabili della natura, l’istinto, la spontaneità; corrisponde a Venere. 8- Hod (maestà) è il principio femminile che rappresenta le facoltà mentali, l’immaginazione, la fantasia, la vista interiore, le reazioni ponderate e razionali; corrisponde a Mercurio. 9- Yesod (fondazione) è il conciliatore dei due precedenti, la luna, l’abisso, l’occulto, la sessualità. 10- Malkuth (regno) è la sfera della terra, del corpo, della materia. Le ventidue lettere dell’alfabeto ebraico venivano considerate i mattoni dell’universo, poiché Dio aveva creato il mondo usando parole in lingua ebraica. Come nel greco, anche in ebraico i numeri sono espressi con le lettere dell’alfabeto, perciò ogni lettera ha anche un valore numerico. Vediamo ora le lettere. 1- Alef. E’ una delle tre lettere madri, dal valore numerico di uno. 2- Beth. Lettera doppia, valore numerico di due. 3- Gimel. Lettera doppia, valore numerico di tre. 4- Daleth. Lettera doppia, valore numerico di quattro. 5- He. Lettera semplice, valore numerico di cinque. 6- Waw. Lettera semplice, valore numerico di sei. 7- Zahin. Lettera semplice, valore numerico di sette. 8- Heth. Lettera semplice, valore numerico di otto. 9- Teth. Lettera semplice, valore numerico di nove. 10- Yod. Lettera semplice, valore numerico di dieci. 11- Kaf. Lettera doppia, valore numerico di 20. 12- Lamed. Lettera semplice, valore numerico di 30. 13- Mem. E’ la seconda lettera madre, dal valore numerico di 40. 14- Nun. Lettera semplice, valore numerico di 50. 15- Samek. Lettera semplice, valore numerico di 60. 16- Ayin. Lettera semplice, valore numerico di 70. 17- Peh. Lettera doppia, valore numerico di 80. 18- Sade. Lettera semplice, valore numerico di 90. 19- Qof. Lettera semplice, valore numerico di 100. 20- Res. Lettera doppia, valore numerico di 200. 21- Sin. E’ la terza lettera madre, dal valore numerico di 300. 22- Tau. Lettera doppia, valore numerico di 400. Le lettere dell’alfabeto hanno sempre avuto grande importanza in magia, ed in particolare nella Cabala; ad esse corrispondono tre chiavi di lettura: la Gematria, il Notarikon e la Temurah. La Gematria converte le lettere in numeri, li somma ed ottiene una certa cifra; le parole che hanno lo stesso numero possono sostituirsi l’una con l’altra. Per esempio, la frase “Shilo verrà” vuol dire che verrà il Messia, perché Shilo e Messia hanno lo stesso valore numerico.  Il Notarikon prende la prima e l’ultima lettera delle parole di una frase e compone un’altra parola; oppure considera le parole come se fossero acrostici, cioè ogni lettera di una parola sarebbe l’iniziale di un’altra parola. L’esempio più noto è AGLA, parola magica che si trova tanto spesso sui talismani e nei cerchi magici: è formata dalle parole Atha, Gibor, Leolam e Adonai, che vogliono dire: “Tu sei possente per sempre, o Signore”, per cui scrivere Agla significa creare una barriera contro gli spiriti infernali usando la potenza di Dio per fermarli.  La Temurah anagramma le parole o sostituisce una lettera con un’altra; questo è molto utile in magia, perché permette di sostituire una cosa con un’altra, riversando sull’altra il destino felice o infelice. Dice una leggenda che ai tempi della Seconda Guerra Mondiale gli Ebrei siriani, temendo di essere invasi dall’esercito tedesco, dopo la caduta della Grecia, trasposero il nome Siria in Russia, che in ebraico hanno le stesse lettere, ma messe in modo diverso; così i Tedeschi deviarono il loro cammino ed invece di invadere il Medio Oriente si diressero verso la Russia. Usando queste tre chiavi si possono quindi trovare significati nascosti nelle cose e creare parole dotate di particolare potenza; i Grimori devono molto a questa pratica cabalistica, perché i maghi, come i Cabalisti, credevano che i nomi fossero fonte di potere e che nel nome di una cosa ci fosse l’essenza della cosa stessa. Nel Medioevo c’era la diffusa convinzione che gli Ebrei usassero la Cabala per maledire Cristo nelle loro preghiere quotidiane; infatti essi dicevano: “Coloro che si inchinano alla vanità e al nulla pregano un dio che non dà salvezza”. Dato che l’espressione “al nulla” corrispondeva numericamente a Gesù, l’Inquisizione censurò questo passaggio, che fu poi eliminato definitivamente dal rituale per evitare guai. Alcuni testi cabalistici si presentano in forma di dialogo fra un insegnante ed i suoi allievi, i quali fanno domande ed esprimono le loro opinioni e i loro dubbi; il Rabbi (parola che significa “mio maestro”) controlla che ogni studente abbia esattamente capito ogni passo e non corra pericoli derivanti dall’uso improprio di questa dottrina segreta. Per studiare la Cabala occorrono saggezza, pazienza, intuito e maturità, per questo i maestri ne sconsigliano l’approccio prima dei quaranta anni, e sempre con un maestro che segua. Pasticciare con le formule cabalistiche può essere molto pericoloso; si narra di un giovane che odiava il fratello maggiore; con un rituale magico cercò di ucciderlo, ma sbagliò bersaglio ed uccise suo padre alla stessa età di suo fratello, eliminando quindi anche se stesso. La Cabala comprende vari scritti, alcuni dei quali di autori anonimi; i due più famosi sono il Sepher Yetzirah e lo Zohar. Il primo, il Libro della creazione, scritto in ebraico e composto da poche pagine, viene attribuito dalla tradizione al patriarca Abramo, ma fu probabilmente scritto a Babilonia tra il II e VI secolo dopo Cristo; esso parla dell’universo costituito dai Sephiroth e dalle lettere dell’alfabeto ebraico. Data la sua brevità, fu tra le opere più conosciute e tradotte. A riscoprirlo sarebbe stato Shabbatai Donnolo, vissuto nell’Italia meridionale attorno al 950 d.C.; egli non fu un vero cabalista, ma si limitò a far girare tra gli studiosi i manoscritti che erano venuti in suo possesso; il suo amico Saadia Gabon, molto interessato alla Cabala, lo tradusse in latino, arricchendolo con un dotto commento. Il Sepher ha-Zohar, il Libro dello splendore, è un’opera monumentale in dodici libri, scritta in aramaico con alcune parti in ebraico; fu composta in Spagna nel 1275, probabilmente da Moses Ponce de Leon o da Yosef Giqatilla (1248-1325), autore di altri testi cabalistici. Lo Zohar è una summa di tutta la dottrina cabalistica; vi si parla di un antichissimo libro dei segreti, dato ad Adamo dall’angelo Raziel, che conteneva il mistero della saggezza e permise ad Adamo di riacquistare la propria dignità dopo la cacciata dall’Eden. La leggenda dice che il nucleo iniziale del testo fu ispirato da Rabbi Simeon ben Yokhai, vissuto nel II secolo d.C.; condannato a morte dai Romani, egli si era rifugiato in una grotta col figlio Eleazar ed altri discepoli. Le loro conversazioni su temi mistici erano state poi raccolte sotto forma di appunti, che avevano formato la base per lo Zohar. Il libro più popolare è il Talmud, lo Studio, antologia di motti, sentenze e racconti, i cui protagonisti non sono eroi che affrontano vittoriosamente mille avventure, ma saggi ebrei, che insegnano le sottigliezze della Torah, la legge mosaica, con numerose parabole. Il testo cabalistico più ermetico è il Sepher ha-Temunah, il Libro della figura, composto da un anonimo nel 1200, in Catalogna o in Provenza. Esso parla delle attribuzioni delle ventidue lettere dell’alfabeto, visualizzate come tre ruote che si muovono arricchendosi sempre più di significati occulti. Infine ricordiamo il Sepher ha-bahir, il Libro fulgido, che è considerato il primo testo della Cabala medievale; risale all’inizio del XII secolo e si presenta come un commento alle sacre scritture, in forma di dialogo. Uno dei più noti esegeti spagnoli di Cabala fu Abraham Ben Samuel Abulafia; egli nacque a Saragozza e viaggiò in lungo e in largo, venendo in contatto con una comunità sufita, che lo influenzò moltissimo. Nel 1271 venne invaso dallo spirito profetico e nel 1280 si recò a Roma per convincere il papa Niccolò III dell’unità occulta di tutte le religioni; imprigionato, si salvò per la repentina morte del pontefice. Egli si considerava iniziatore della cabala profetica; nella sua Epistola dei sette veli spiegò che la creazione era stata il risultato di un atto di scrittura di Dio: la scrittura aveva formato la materia della creazione; una disciplina particolare, che combinava le lettere dell’alfabeto ebraico con i numeri, permetteva di raggiungere l’estasi, la consonanza con il proprio angelo-guida spirituale. Chi seguiva questa pratica poteva realizzare al suo livello ciò che il messia avrebbe realizzato un giorno per l’umanità intera. Queste concezioni provocarono la rivolta della comunità ebraica, che non accettava l’idea di un messia umano. Un altro famoso cabalista spagnolo fu Mosheh ben Maimon (1135-1204), meglio noto col nome latinizzato di Maimonide; nato a Cordova, dopo aver compiuto gli studi superiori cominciò a girare per l’Europa, spingendosi fino in Egitto, che egli considerava la patria di ogni conoscenza occulta. Raccolse il suo sapere in diciotto trattati, uno dei quali, La guida degli smarriti, gli procurò il titolo di massimo cabalista spagnolo. Ad introdurre la Cabala in Francia fu Isacco ben-Avraham il Cieco (1165-1235), nato a Beaucaire, in Linguadoca. Egli era un sostenitore della necessità della meditazione e della contemplazione per avvicinarsi a Dio. Di lui resta solo un commento al Sepher Yetzirah. Tra i suoi discepoli il più noto fu Mosè ben Hachman, detto Nachmanide, iniziatore della cabala filosofica, di cui impregnò la legge talmudica. Fu anche un seguace della magia, sia cerimoniale che necromantica, che considerava perfettamente lecite. Uno dei suoi interessi fu la dottrina cabalistica circa la sorte dell’uomo, che poteva essere indagata mediante la fisiognomica e soprattutto la chiromanzia, poiché lo Zohar affermava che “le linee della mano sono per l’uomo ciò che le stelle e gli altri corpi celesti sono per il firmamento”. La più importante scuola tedesca di cabala aveva sede a Worms ed era stata fondata da Yehuda ben Samuel, un rabbino di Ratisbona; quando morì, nel 1217, gli successe come direttore Eléazar ben Juda Kalonymos, di una ricca famiglia di Magonza; egli fu una delle vittime delle epurazioni anti-ebraiche, perché perse la moglie, il figlio e le due figlie nel massacro di Worms; scrisse opere di commento alla Bibbia che ebbero grande successo. Più mago che cabalista puro, si occupò di pentacoli e di talismani di protezione; gli fu attribuito un libro in cui erano rivelati i nomi degli angeli ed il senso occulto delle lettere dell’alfabeto, che venne studiato con grande attenzione dai cabalisti rinascimentali, tra cui Pico della Mirandola. Si deve invece agli Arabi l’arrivo in Occidente dell’alchimia; le maggiori città arabe, come Alessandria, Bagdad, Damasco, Bassora, Samarcanda, Fez ed in Spagna Siviglia, Toledo e Cordova, ospitavano scuole, biblioteche ed accademie di dotti. La Spagna divenne il centro della cultura europea e lo rimase fino al 1400, quando fu sostituita dalle corti rinascimentali italiane e francesi (2). Molte leggende definiscono Ermete Trismegisto inventore dell’alchimia; in realtà il più antico testo alchemico certo risale al II secolo prima di Cristo: la Physika di Bolo Democrito, nato a Mende, che analizzava gli aspetti chimico-fisici dei metalli. Niente prova che l’alchimia in Occidente sia precedente a questa data. La parola stessa ha un’etimologia incerta: alcuni dicono che deriva da Al-Kimiya, la chimica per eccellenza; altri che prende il nome dall’antica definizione di Egitto, terra di Kemel, sostenendone l’origine egiziana. L’Alchimia è l’arte di trasmutare metalli vili in metalli nobili; l’idea che fosse possibile modificare profondamente la natura dei metalli venne forse dalle prime osservazioni della chimica, che fecero nascere illusioni circa i risultati dei trattamenti; l’indagine verso le potenzialità dell’alchimia divenne nettamente preponderante sulle ricerche chimiche fino al 1500, quando l’arte della ricerca dell’oro alchemico si separò dalla scienza chimica vera e propria. La chimica nega la trasmutazione, che sarebbe attuabile solo se si riuscisse a cambiare la struttura della materia; nonostante questo, da secoli c’è chi prova ad ottenere l’oro alchemico e l’elisir che dà l’immortalità, anche se il procedimento è tutto fuorché facile, necessitando di un attrezzato laboratorio, e finora, almeno all’apparenza, non è mai stato caratterizzato dal successo. I saggi dicono che i metalli sono solo un simbolo e che la vera trasmutazione non riguarda l’oro, facciata per gli sciocchi e gli avidi, bensì l’anima umana; l’alchimia diventerebbe allora un metodo per raggiungere la perfezione, il cosiddetto “oro interiore”, essendo l’oro materiale raro e prezioso. Il processo alchemico viene anche chiamato Grande Opera, divisa in tre parti: opera al nero (nigredo), che è lo stadio iniziale corrispondente al caos della materia prima, che si annerisce perché il fuoco comincia ad agire e mescola perfettamente tutti gli elementi; l’opera al bianco (albedo), che consiste nell’esporre al fuoco la materia prima annerita fino a farla diventare bianca, segno che la vita ha preso il sopravvento sulla morte; e l’opera al rosso (rubedo), che è l’ultimo stadio e simboleggia l’unione del principio maschile con quello femminile, entrambi uniti nella pietra filosofale, base per ogni trasformazione alchemica. La pietra filosofale è la sostanza capace di mutare in oro metalli vili; mescolata ad altri ingredienti liquidi costituisce l’elisir di lunga vita, che dona salute e longevità a chi lo beve; inoltre era l’ingrediente principale per la costruzione dell’Homunculus, la creatura fabbricata da alcuni maghi creandola dal nulla. Il più ricercato dai mistici medievali fu l’elisir di lunga vita: in un periodo in cui la vita media era di circa quarant’anni, una vita lunghissima sembrava preferibile ad una esistenza breve e ricca. Le ricette medievali parlano di ingredienti tanto stravaganti quanto misteriosi, come lo “zucchero mercuriale”, base della mistura, oltre ad una sostanza contenuta nel cervello delle aquile; il tutto doveva essere macerato nel vino con erbe aromatiche e spezie come cannella, anice, radici di genziana e pimento. Ad accelerare i processi alchemici interveniva l’Alkahest, il solvente universale, che veniva chiamato anche mercurio filosofico, sostanza dal potere fluidificante. I primi libri di alchimia comparvero nel III secolo d. C., quando fu pubblicata un’enciclopedia in ventotto volumi, scritta da Zosimo da Panopoli. Nato nella città egiziana di Panopoli, l’odierna Akh-mim, egli visse ad Alessandria, dove studiò l’ermetica e dove scrisse numerosi trattati, che gli valsero l’appellativo di “Corona dei filosofi”. Zosimo fu influenzato dagli Gnostici, come si può vedere nelle sue Memorie autentiche, in cui parlò di metafisica, alchimia e dei rapporti fra questa e la magia; scrisse un manuale per costruire un alambicco a tre punte, con numerose figure. La sua opera più famosa è Il libro della virtù, che riporta l’intera simbologia in uso fra gli alchimisti ed elenca le allegorie riferite alla religione egiziana che tanta fortuna ebbero nei secoli seguenti. I testi di alchimia, provenienti da Alessandria d’Egitto, arrivarono fino a Bisanzio ed a Jundi-Shaper, un’accademia di intellettuali persiani, molto fiorente nel 700 d. C. Gli Arabi si dedicarono con entusiasmo allo studio di questa materia. Il primo alchimista arabo fu Khalid ibn Yazid (660-704); principe per nascita, rifiutò di regnare, perché le manovre politiche lo annoiavano ed i giochi di potere, con i loro crimini, lo disgustavano; decise di dedicarsi allo studio e fu iniziato all’alchimia da Morieno, discepolo del famoso alchimista Stefano di Alessandria, che lavorava a Bisanzio sotto la protezione dell’imperatore Eraclito I (610-641). Morieno viveva a Gerusalemme come un eremita; Khalid non riusciva a trovare un vero alchimista, perché era circondato da ciarlatani. Quando il ciambellano di corte gli fece il nome del maestro, il principe si recò subito da Morieno, che compì sotto i suoi occhi una trasmutazione; Khalid ne fu felice, ma nello stesso tempo si infuriò contro i falsi alchimisti e li fece giustiziare tutti. Sconvolto da questa crudeltà, Morieno fuggì; il principe lo fece ricercare dal suo servo Ghalib; trovatolo, gli chiese di insegnargli l’alchimia, ma Morieno accettò solo a patto che il principe si redimesse e giurasse di non compiere più atti di barbarie. Khalid scrisse numerosi poemi, libri d’arte ed altri di magia, oltre ad un libro di alchimia, Il libro della saggezza, composto in versi. Un altro famoso alchimista fu Jabir ibn Hayyan, detto Geber; nato nel 721, figlio di un mercante di spezie del Khorasan, studiò il Corano, la matematica e l’alchimia; membro di una confraternita sufita, divenne alchimista della corte di Harun al Rashid. Nella sua Summa perfectionis egli sottolineò che l’alchimia aveva soprattutto una componente spirituale, pur non escludendo applicazioni pratiche delle conoscenze alchemiche. Riprese i quattro elementi aristotelici, cioè aria, acqua, terra e fuoco, postulando quattro nature, caldo, freddo, secco e umido; l’unione delle nature con le sostanze generava gli elementi. Nel suo Libro degli equilibri si professò avversatore dell’empirismo, via che portava al fallimento; costruì dei quadrati magici di numeri, la cui somma era 17, poiché era convinto che i metalli possedessero diciassette poteri; lasciò molte opere, tradotte nel XII secolo da Gerardo da Cremona. Egli si occupò anche dei metodi di raffinazione dei metalli e di colorazione della seta. L’idea base degli alchimisti, cioè che tutti i metalli fossero composti da zolfo e mercurio in quantità variabile, è spiegata da Geber nel Compendio del perfetto magistero (3). “Il sole (l’oro) è formato da mercurio molto sottile e da un poco di zolfo purissimo, fisso e chiaro, che ha un colore rosso netto; e siccome lo zolfo non è sempre colorato ugualmente, perché ve ne è di più colorato e di meno, da ciò dipende se l’oro è più o meno giallo. Quando lo zolfo è impuro, rozzo, rosso, livido, e la maggior parte è fissa mentre una piccola parte non è fissa, se si mischia con un mercurio impuro in parti uguali si formerà Venere (il rame). Se lo zolfo possiede debole fissità e un biancore impuro, se il mercurio è impuro ed ugualmente di imperfetto biancore, dalla loro unione si formerà Giove (lo stagno)”. Partendo da questi presupposti, si trattava di variare le quantità per ottenere i metalli che si volevano, con possibilità praticamente infinite di combinazioni. Geber fu il primo a riferire questa teoria, attribuendone la scoperta agli “antichi maestri”. La facoltà di trasformazione era nascosta in un seme, che formava la materia generatrice; il vaso che conteneva le sostanze da trasformare si chiamava uovo filosofico; la sostanza capace di trasformare istantaneamente i metalli in oro era la pietra filosofale; essa aveva “il colore dello zafferano, era pesante e brillante come frammenti di vetro”; per Paracelso era invece color rubino scuro, trasparente e malleabile; per altri era “colore del papavero selvaggio, con odore di sale marino calcinato”. Khalid, per migliorare la confusa situazione, disse che la pietra riuniva in sé tutti i colori ed era bianca, rossa, gialla verde ed azzurro cielo. Dopo Geber praticamente tutti i sapienti arabi si occuparono di alchimia, portando la disciplina nei paesi conquistati, in particolare in Spagna, che fin dal IX secolo ebbe scuole a Siviglia, Cordova, Toledo, Murcia e Granada. Tra i più noti ricordiamo Al-Kindi (801-887), di origine beduina, che scrisse trattati di astronomia, filosofia e musica; Abu Bakr Ar-Razi, nato nel Khorasan come Geber attorno all’850, che da giovane si dedicò alla musica, poi alla medicina ed alla fisica, indi intraprese studi di filosofia e, dopo un viaggio in Egitto, cominciò a praticare l’alchimia; la sua fama divenne tale che l’emiro Almansour acconsentì ad attrezzargli un laboratorio per la fabbricazione dell’oro alchemico, spendendo una cifra favolosa del tutto inutilmente, perché Ar-Razi non riuscì nel suo intento. Infuriato, l’emiro percosse l’alchimista con tale violenza da accecarlo, poi lo scacciò dalla corte; morì poverissimo nel 932, ma i suoi trattati di medicina e sull’influenza dei pianeti sui metalli ebbero grande successo per secoli. Il persiano Abu Ali ibn Sina, detto Avicenna, nato nel 980, fu notissimo filosofo, medico e si occupò degli influssi della mente sul corpo e della magia talismanica. Albumasar (Abu Mashar), nato a Bagdad nell’805, scrisse libri di occultismo che influenzarono tutta la magia del Medioevo; autore di due ponderosi trattati di astrologia in otto volumi, Migliaia di anni, dichiarò che il mondo era stato creato quando i sette pianeti erano in congiunzione nel primo grado dell’Ariete e che il mondo sarebbe finito quando i sette pianeti si fossero ritrovati congiunti nell’ultimo grado dei Pesci. Quando la dominazione araba in Spagna finì, l’alchimia si diffuse in tutta l’Europa. Però le speculazioni mistiche sull’alchimia cominciarono solo dopo il XII secolo; prima ogni sforzo era volto, molto prosaicamente, all’ottenimento dell’oro. Con l’incontro tra la morale cristiana e l’alchimia, questa venne stravolta e mischiata con concetti di teosofia: le operazioni della Grande Opera alchemica vennero paragonate ai rapporti fra anima e corpo, accomunati ai misteri della religione; la pietra filosofale si arricchì di nuove capacità: divenne in grado di dare saggezza e virtù, purificare lo spirito, allontanare dal vizio, mettere sotto l’influsso della grazia divina, spogliare l’uomo “dalla vana ambizione, la violenza, l’eccesso del desiderio, la speranza, la gloria e la paura”. Ne conseguiva, ovviamente, che tutti i grandi saggi dell’antichità avevano posseduto la pietra filosofale; alcuni arrivarono a dire che la frase dell’Apocalisse: “Al vincitore donerò una pietra bianca” voleva dire che Dio avrebbe dato la pietra filosofale ai buoni cristiani. Perfino il critico Lutero elogiò l’alchimia “a causa dei magnifici accostamenti offerti con la resurrezione dei morti nell’ultimo giorno”. Uno dei più famosi alchimisti medievali fu Arnaldo di Villanova (1240-1313), medico e filosofo; nato in Catalogna, studiò a Barcellona ed in Francia la medicina araba, l’astrologia e la filosofia. Colpito da censura dell’università a Parigi, lasciò la Francia per la corte aragonese in Sicilia, dove conobbe il papa Bonifacio VIII, del quale divenne medico personale. Fu proprio davanti al papa che compì una trasmutazione alchemica, ricavando verghe d’oro purissimo. Gli si attribuiscono numerose opere alchemiche, fra cui il Tesoro dei tesori, rosario dei filosofi e massimo segreto di tutti i segreti, messo all’indice perché si paragonavano le operazioni alchemiche con il concepimento, la nascita e le opere di Cristo; la protezione papale lo salvò dai rigori dell’Inquisizione, che però vietò le sue opere. I suoi scritti apocalittici parlavano dell’imminente fine del mondo, preceduta dall’avvento dell’Anticristo, a metà del 1300. Recatosi a Parigi, venne imprigionato; per intercessione di un potente amico venne scarcerato, ma fu costretto a subire un processo, che portò a bruciare i suoi libri; cercò di ottenere la revoca della condanna, inviando al papa un suo libro privo dei punti più controversi, ma la cosa non gli riuscì, perché i vescovi francesi avevano già spedito al papa la versione integrale; Bonifacio lo fece di nuovo incarcerare e gli mise di fronte il dilemma: rogo o abiura. Per sua fortuna il pontefice si ammalò; Arnaldo lo guarì ed il papa riconoscente lo liberò e gli donò un piccolo castello, permettendogli di continuare le sue ricerche fino alla morte. Ramon Lull (1233-1315), il cui nome venne italianizzato in Raimondo Lullo, fu un filosofo e mistico spagnolo; sposato e padre di tre figli, a trent’anni si fece frate francescano e cercò di diffondere le idee del cristianesimo ai Musulmani, creando un sistema esposto nell’Ars magna, che ipotizzava un ordine universale di corrispondenze fra le cose. Fondò conventi e scuole filosofiche. La leggenda si è impossessata di questo personaggio, facendone lo scopritore dell’elisir di lunga vita. Si dice che a trent’anni egli si innamorò a prima vista di una bellissima dama italiana, Ambrosia del Castello, che aveva notato nella cattedrale di Palma de Majorca. Entrato a cavallo nella chiesa per farsi notare dalla dama, suscitò un enorme scandalo. Mandò quindi un biglietto di scuse ad Ambrosia, giustificandosi con una passione sovrumana, repentina e folle che l’aveva colto al solo guardarla. La donna rispose che per essere degna di questo amore sovrumano avrebbe dovuto possedere il dono dell’immortalità. Raimondo non prese questo come un cortese congedo, ma come un programma futuro: si ritirò allora in solitudine, allo scopo di trovare la formula dell’elisir che rendesse entrambi immortali. Ed un giorno seppe d’aver vinto; con la fiala piena del liquido color rubino si presentò alla porta della sua bella. Spiegò ad Ambrosia che aveva trovato l’elisir e la scongiurò di berlo; ma la donna accese una lampada e si slacciò l’abito: Raimondo non vide la bellissima che l’aveva affascinato, ma una donna ormai vecchia, con le membra corrose dal cancro, che anelava solo di morire presto: preso dai suoi studi, non si era accorto che molti anni erano passati. Impietosito, distrusse l’elisir e lasciò che Ambrosia trovasse la pace della morte; egli fu invece costretto a restare vivo. Vecchio e malconcio, ma immortale, Raimondo visse molte brutte avventure e morì mille volte; un giorno a Tunisi si trovò in un gruppo di Musulmani, che egli tentò di convertire al Cristianesimo; per questo essi lo lapidarono. Passarono di lì due mercanti genovesi, che videro una grande luce provenire dal mucchio di pietre; stupiti, essi rimossero le pietre e videro il corpo del povero Raimondo, ancora vivo. Pietosamente essi lo medicarono e fecero rotta verso Palma di Majorca, per riportarlo alla sua isola natale; e quando furono in vista della costa, Dio gli concesse come premio per le sue azioni il dono della morte. Tra gli alchimisti inglesi ricordiamo Ruggero Bacone (1214-1292); nato nel Somerset da una famiglia agiata, andata in rovina per motivi politici, egli studiò dai Francescani e fu allievo di Pierre de Maricourt, autore di uno dei primi trattati sulla calamita. Fu uno dei promotori del metodo sperimentale e un alchimista; egli distinse l’alchimia operativa da quella speculativa: “L’alchimia speculativa si occupa della generazione delle cose a partire dagli elementi, di tutto ciò che è inanimato: umori semplici e composti, pietre comuni e preziose, marmi, oro e altri metalli, zolfo, sali e tinture, lapislazzuli, minio e altri colori, oli, bitumi combustibili e un numero infinito di cose che non si trovano menzionate né in Aristotele, né nei filosofi della natura, né in alcuno dei latini. Questa scienza la maggior parte degli studiosi non la conoscono affatto. Ma accanto a questa ce n’è un’altra, che insegna a fabbricare i metalli nobili, i colori e molte altre cose per mezzo dell’Arte, meglio o con maggiore abbondanza di quanto non faccia la natura” (4). Una leggenda dice che Bacone, animato da spirito patriottico, si mise in testa di costruire una muraglia di protezione attorno all’Inghilterra, che impedisse le invasioni; forgiò allora una testa d’ottone e vi chiuse dentro uno spirito. Prima di entrare nella testa lo spirito avvertì Bacone di fare molta attenzione e di sorvegliare la testa, perché questa avrebbe comunicato una sola volta quando sarebbe arrivato il momento esatto per iniziare la costruzione della magica muraglia. Bacone e l’amico Bungey sorvegliarono la testa ininterrottamente per tre settimane, notte e giorno; stanchi per le lunghe veglie, decisero di concedersi un pisolino ristoratore, lasciando un altro monaco di sorveglianza. Appena si furono addormentati, la testa si animò: “E’ il momento”, disse in tono solenne. Il monaco non ritenne opportuno disturbare i dormienti per così poco; dopo mezz’ora la testa parlò di nuovo: “Era il momento”. Ancora il monaco lasciò dormire Bacone e dopo un’altra mezz’ora la testa disse: “Il momento è passato” ed esplose in mille pezzi. Il rumore svegliò Bacone, che si infuriò con lo stolto monaco e gliele suonò con un bastone, ma l’occasione era ormai perduta e la muraglia non poté mai più essere fatta. Il più famoso alchimista di tutti i tempi fu Nicholas Flamel; scrivano parigino, come lo era stato suo padre, viveva una vita tranquilla e noiosa redigendo atti ed inventari, tenendo i conti di chi aveva minorenni sotto tutela. Un giorno comprò per pochi soldi uno strano libro, che sembrava fatto di scorze d’albero invece che di fogli, con una copertina di rame con figure e lettere che egli non riuscì ad interpretare. Il testo era scritto in latino; consisteva in “tre volte sette fogli, il settimo dei quali era sempre senza scrittura. Al posto di esso, nel primo settimo era dipinta una verga con due serpenti, che si inghiottivano; nel secondo settimo una croce con un serpente crocifisso; nell’ultimo settimo erano dipinti dei deserti in mezzo ai quali sgorgavano belle fontane e da cui uscivano parecchi serpenti” (5). Flamel tradusse il testo latino: in esso l’autore, un ebreo astrologo e filosofo, si rivolgeva ad altri Ebrei, “dispersi dall’ira di Dio”, dando loro indicazioni per fare la trasmutazione dei metalli allo scopo di avere denaro per pagare i tributi all’imperatore romano. Le indicazioni erano espresse in un linguaggio ermetico basato sul simbolismo cabalistico; in particolare non veniva citata la sostanza basilare da cui partire. Flamel passò mesi studiando il libro, senza riuscire a venirne a capo, finché la moglie Perrenelle non lo convinse a mostrare le figure di alcuni fogli ai più dotti sapienti di Parigi, che non ne capirono più di Flamel. Continuando nella sua solita vita, egli passava però tutto il suo tempo libero a fare esperimenti. Scoraggiato, dopo ventun anni di tentativi decise di recarsi in Galizia al santuario di san Giacomo da Compostella, per fare un voto, chiedendo di trovare un decifratore. Di ritorno dal santuario, egli incontrò un ebreo convertito, che gli spiegò il significato delle figure e dei simboli della copertina e gli svelò il segreto della sostanza base, poi morì di una repentina e misteriosa malattia. Ma ormai Flamel era in grado di cominciare e, tornato a Parigi, il 17 gennaio 1382 riuscì a produrre alchemicamente la prima mezza libbra di argento puro dal mercurio, argento che poi trasmutò in oro. Flamel e la moglie, essendo senza figli, decisero di investire i beni ottenuti con l’alchimia in opere di misericordia: fecero costruire due ospedali e tre cappelle, restaurarono sette chiese, per non parlare della beneficenza fatta direttamente a tutti coloro che ne avevano la necessità. Per tramandare in qualche modo ai posteri le conoscenze apprese dal libro, Flamel commissionò il restauro del cimitero degli Innocenti di Parigi, facendo dipingere i segni del libro in forma di figure geroglifiche, nascoste sotto un complicato simbolismo, in modo che chi fosse in grado di capirne il senso potesse “portare a termine, per gloria di Dio, il magistero di Hermes, che cambia un uomo da cattivo a buono e gli toglie la radice di ogni peccato, che è l’avarizia, rendendolo liberale, dolce, pio, religioso e timorato di Dio” (6).(Devon Scott) Note bibliografiche (1) Sulla Cabala si veda la voce omonima curata da Mario Dal Pra sull’Enciclopedia Einaudi, volume secondo, Torino; La Cabala di Henri Serouya, edizioni Mediterranee, Roma. I principali testi cabalistici sono riuniti in Mistica ebraica di autori vari, a cura di G. Busi ed E. Loewenthal, editrice Einaudi, Torino. (2) Sull’alchimia abbiamo consultato Scienze, arti e alchimia di Alberto Cesare Ambesi, editrice Xenia, Milano; L’alchimia svelata di Louis Figuer, editrice Basaia, Roma; Il chimico e l’alchimista di Antonio di Meo, Editori Riuniti, Roma; Studi sull’alchimia. Il segreto del fiore d’oro e altri scritti di Carl Gustav Jung, editrice Boringhieri, Torino; Storia delle scienze della natura di Stephen F. Mason, editrice Feltrinelli, Milano; Le musée hermétique: alchimie et mystique di Alexander Roob, editrice Taschen, Colonia. Alcuni importanti testi di alchimia si trovano in Il libro di Alchimia, editrice MEB, Padova; Lo specchio dell’alchimia a cura di Sabina e Rosario Piccolini, editrice Mimesis, Milano. (3) Da Alchimia di J. Fabricius, edizioni Mediterranee, Roma. (4) Da La scienza sperimentale di Ruggero Bacone, a cura di Francesco Bottin, editrice Rusconi, Milano. (5) Da Il libro delle figure geroglifiche di Nicholas Flamel, edizioni Mediterranee, Roma. (6) Da Il segreto della polvere di proiezione. Prezioso dono di Dio-Il Giardino delle ricchezze di Nicholas Flamel, edizioni Mediterranee, Roma.