Lo sterminio degli uomini rossi

Si continuano ad uccidere i leader ambientalisti e a fare stragi nell’Amazzonia sotto i nostri occhi offuscati senza che i media internazionali ne diano notizia di rilievo. 2013 – Ambrosio Vilhalva: assassinato il leader dei Guaranì. È morto il leader dei Guaranì, un popolo indigeno che vive tra la Bolivia, il Brasile e il Paraguay. L’uomo è stato accoltellato la notte del 1° dicembre, mentre si trovava nel villaggio di Guyaroka-Caarapo. L’attivista per i diritti delle popolazioni indigene avrebbe ricevuto numerose minacce di morte nell’ultimo periodo. Aveva raggiunto la notorietà in tutto il mondo dopo essere stato protagonista del film “, ma la sua fama era dovuta soprattutto all’attivismo sociale e ambientale. La vita delle popolazioni indigene sudamericane si trova minacciata in continuazione dall’espansione delle piantagioni di canna da zucchero. Gli Indios vedono così sottratte le proprie terre, perdendo la propria patria pezzo dopo pezzo. Vilhalva aveva lottato contro tutto questo, aveva denunciato al mondo i soprusi nei confronti dei Guaranì e si era trasformato in un personaggio scomodo. Aveva una sola richiesta: che il suo popolo venisse tutelato, che l’accaparramento di terra avesse fine al più presto. Il leader dei Guaranì era stato protagonista di incontri internazionali e aveva viaggiato in tutto il mondo per raccontare il dramma della propria tribù. Le prime notizie suggeriscono che non vi sono legami tra la morte di Vilhalva e le minacce ricevute di recente da parte di coloro che mal sopportavano la sua battaglia contro le attività illegali di deforestazione. La polizia al momento ha arrestato il suocero di Vilhalva. L’uomo ha però negato di esserne l’assassino. Ambrosio Vilhalva era una figura di vitale importanza per la difesa delle terre del popolo Guaranì. Ora resteranno da chiarire le motivazioni della sua scomparsa, probabilmente legate alla sua attività di difesa dei territori dei Guaranì, nonostante le smentite. Nel 2007 la tribù di Vilhalva era riuscita a recuperare parte delle terre che erano appartenute agli antenati. Gran parte di esse è stata distrutta a disboscata per fare spazio ad enormi piantagioni di canna da zucchero. Tra i proprietari di una delle piantagioni troviamo un potente uomo politico locale. Jose Teixeira, che si trova al lavoro su di un progetto dedicato ai biocarburanti con la multinazionale del petrolio Shell. I Guaranì hanno espresso un’unica speranza: la loro battaglia per la riconquista delle terre degli antenati non finirà con la morte di Ambrosio Vilhalva. Terra e giustizia, ecco i maggiori obiettivi dei popoli indigeni, che in nome del loro leader appena scomparso non si arrenderanno di fronte a coloro che vogliono deprivarli della loro patria. 2014 -Win Chota, l’attivista peruviano noto per le sue azioni di difesa dell’Amazzonia dalla deforestazione è stato ucciso insieme ad altre tre persone che facevano parte della tribù degli Ashenika. Il suo impegno era volto a contrastare il narcotraffico di cocaina lungo le vie fluviali e la deforestazione illegale. Lo scorso agosto, insieme a Jorge Ríos Pérez, Leoncio Quinticima Melendez e Francisco Pinedo, era partito per un viaggio attraverso la foresta per incontrare alcuni leader indigeni del Brasile. Gli omicidi sarebbero avvenuti a fine agosto in un’area difficile da raggiungere e la conferma della notizia sarebbe arrivata solo nelle ultime ore. Edwin Chota aveva 54 anni e faceva parte di una tribù indigena dell’Amazzonia, distribuita in parte in Perù e in parte in Brasile. Gli attivisti sarebbero stato uccisi mentre attraversavano un fiume, con l’intenzione di raggiungere la località di Sowato. I responsabili potrebbero fare parte di un gruppo di taglialegna illegali o di narcotrafficanti, dato che gli attivisti lottavano proprio contro questo tipo di azioni fuori legge. Si tratta comunque al momento solo di ipotesi. Per volere del Presidente peruviano si è ora formata una commissione d’indagine con l’obiettivo di individuare i responsabili. Inoltre, non sono mancate le accuse rivolte alle forze dell’ordine da parte delle autorità giudiziarie peruviane. Le autorità non avrebbero mai agito contro la deforestazione e il narcotraffico, nonostante le numerose segnalazioni. Secondo quanto riportato da Survival International, le vedove delle vittime si sono messe in viaggio per tre giorni attraverso la giungla e sono arrivate alla città di Pucallpa per richiedere un’azione immediata da parte delle autorità peruviane, affinché i colpevoli vengano assicurati alla giustizia. Ora le donne della tribù Asheninka di Saweto starebbero prendendo su di sé la guida della comunità per continuare a la battaglia per la salvaguardia del territorio e dell’ambiente, per il bene dei loro figli. Edwin Chota era ben noto tra gli attivisti indigeni. Aveva dedicato tutta la sua vita ad evitare che il disboscamento illegale distruggesse la sua casa, l’Amazzonia. Negli ultimi anni Chota aveva ricevuto minacce di morte proprio da coloro che si occupavano del disboscamento illegale, ma le autorità non sono mai intervenute per proteggerlo, a parere dell’Aidesep. Ora il Ministro della Cultura del Perù ha assicurato che una squadra di Governo arriverà a Saweto per fare luce sugli omicidi. Addio Laura e Isidro: assassinati in Sudamerica altri 2 difensori dell’ambiente – Addio a due difensori dell’ambiente, Laura Leonor Vásquez Pineda e Isidro Baldenegro López, uccisi negli ultimi giorni. López aveva vinto il Goldman Prize nel 2005. A pochi mesi dall’uccisione di Berta Cecares ecco un secondo caso di assassinio per uno dei vincitori del riconoscimento che premia l’impegno per l’ambiente. Chi si trova in una situazione di rischio ha il coraggio di difendere le proprie terre fino alla morte. López era un attivista messicano che aveva condotto una vera e propria crociata contro il disboscamento illegale e i taglialegna di frodo che stavano distruggendo le foreste. Si tratta del secondo vincitore del Goldman Prize ucciso in meno di 12 mesi. Era un contadino leader della comunità indigena dei Tarahumara nel nord della regione messicana della Sierra Madre. È morto il 15 gennaio 2017, colpito da un proiettile mentre si trovava a casa di un parente. Aveva dedicato la sua vita alla difesa non-violenta delle foreste. Berta Cecares, che aveva vinto il Goldman Prize nel 2015, è stata uccisa a marzo 2016 dopo anni di minacce di morte e intimidazioni per via delle sue campagne contro i finanziamenti per la costruzione, in Honduras, di dighe idroelettriche pericolose per l’ambiente. Ora la speranza è che le autorità messicane possano intervenire per punire i colpevoli della morte di Isidro Baldenegro López. La Goldman Environmental Foundation ha pubblicato un pensiero in sua memoria per ricordare la sua lunga resistenza non-violenta. In Guatemala è stata assassinata anche Laura Leonor Vásquez Pineda, morta per il suo impegno ‘scomodo’ nel difendere il territorio. La notte del 16 gennaio 2017 soggetti non identificati hanno fatto irruzione nella sua casa e l’hanno uccisa. Il cadavere mostrava ferite da arma da fuoco sulla testa. Nel 2013 era stata arrestata e incarcerata per essersi opposta in una protesta pacifica al progetto della costruzione delle nuove miniere di San Rafael. Per la sua volontà di difendere l’ambiente ha trascorso 7 mesi in prigione. I nuovi omicidi fanno comprendere quanto in alcune zone del mondo sia pericoloso lottare per la difesa dell’ambiente, anche se in modo pacifico. Ora gli attivisti del Guatemala esprimono solidarietà alla famiglia della donna e sperano che il Governo possa indagare al meglio per individuare i colpevoli della sua morte. I criminali non dovranno restare impuniti. La preoccupazione è che, come nel caso di Berta Cecares, altri attivisti per la difesa dell’ambiente vengano uccisi secondo uno schema che si ripete. Per questo i gruppi ambientalisti del Sudamerica si schierano al fianco delle vittime, sperano nell’individuazione degli assassini ma non rinunceranno a lottare per proteggere le proprie terre. (Marta Albè) 2016 Sangue indigeno sui latifondi, continua in silenzio il massacro dei Guaraní – Nella quasi totale indifferenza della stampa internazionale, martedì 14 giugno dell’altro sangue Guaraní é stato versato in difesa del diritto degli indigeni brasiliani a vivere nelle terre ancestrali. Nonostante la mobilitazione di tanta parte della società civile, rimane bassa la probabilità che gli artefici della mattanza rispondano delle proprie azioni in tribunale. Quello che gli indios Guaraní Kaiowá hanno subito martedì 14 giugno nella riserva indigena Dourados – Amambai Peguá, una regione del Mato Grosso do Sul già nota per i violenti conflitti tra autoctoni e proprietari terrieri, é stato definito dal Consiglio Indigeno Missionario (CIMI) un massacro. Clodiode Aquileu Rodrigues de Souza, un agente sanitario 26enne di etnia Kaiowá, é stato assassinato e cinque suoi compagni portati d’urgenza all’ospedale São Matheus di Caarapó, tra cui un dodicenne con una pallottola piantata nell’addome. Mentre la Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI) esprime il timore che i feriti possano essere molti di più vista la quantità di Guaraní dispersasi sul territorio nelle ore dell’attacco, in rete circolano video e registrazioni audio che documentano la tragedia.Sono arrivati al mattino vestiti di nero, a bordo dei loro veicoli. Con un trattore hanno travolto il recinto della riserva e vi hanno fatto irruzione sparando. Le pallottole sono volate in aria per quattro ore, uccidendo Clodiode e ferendo altri dei nostri. Hanno dato fuoco ai campi e bruciato moto, pentole, tutto ciò che ci apparteneva. I sopravvissuti raccontano di fazendeiros che coprivano con i fuochi d’artificio il rumore degli spari e nell’assalto alla riserva urlavano “bugres”, un termine dispregiativo utilizzato nel sud del Brasile per riferirsi ai nativi. La tensione è rimasta alta per ore, così come la guardia tra i Guaraní Kaiowá che, nel timore di esser presi d’assalto una seconda volta, hanno attaccato una pattuglia della polizia militare giunta sul posto per far abbassare i fucili ai fazendeiros. Un episodio che fa molto riflettere sullo stato di precarietà ed assoluta mancanza di sicurezza con cui le tribù indigene del Brasile sono quotidianamente tenute a fare i conti. Stephen Corry, presidente di Survival International, ha più volte denunciato pubblicamente come i latifondisti con le mani macchiate di sangue indigeno godano di una vergognosa impunità: uomini armati uccidono regolarmente gli autoctoni nella consapevolezza che difficilmente ne dovranno rispondere alla giustizia. Com’è stato, caso emblematico fra tutti, per Marcos Veron, leader guaraní ucciso nel 2003 ed i cui assassini in tribunale se la sono cavata con delle accuse di minor entità pur essendo imputabili del delitto. L’attacco dei fazendeiros è stato organizzato in risposta alla rioccupazione da parte della comunità Kaiowá del terreno di Tekohá Te’ýikue, sito non lontano dalla riserva. Un terreno tradizionalmente occupato dai loro antenati, da cui sono stati allontanati con la forza delle armi e che hanno deciso di riprendersi la domenica prima dell’assalto. Il giorno dopo l’occupazione i Kaiowá hanno ricevuto una visita della Polizia Federale e di altre divisioni della polizia civile e militare, alla quale è seguito l’avvicinamento di un gruppo di veicoli che per un paio d’ore ha sostato a qualche chilometro di distanza dalla fazenda a studiarne il territorio. Il martedì successivo è seguito l’attacco. Quest’aggressione – l’ennesima ai danni dei Kaiowá, che sono stati danneggiati negli ultimi sei mesi da circa altri 25 episodi simili – fa parte di un piano d’azione adottato dagli agricoltori e dagli allevatori locali mirato a sfrattare illegalmente le tribù autoctone, la cui presenza in questi territori è riconosciuta e consentita dalla legge. E’ l’articolo 231 della Costituzione Federale del 1988 a riconoscere ai popoli indigeni il diritto al possesso permanente ed esclusivo delle Terras Indígenas. La demarcazione delle quali tuttavia è ad oggi un processo lento e lacunoso: la mancata salvaguardia giuridica delle terre ancestrali lascia infatti un vuoto istituzionale sufficientemente ampio da permettere ai fazendeiros di imbracciare i fucili e tutelare i propri interessi con la violenza. Il popolo Gamela sta da anni facendo pressione affinché la FUNAI identifichi e demarchi le proprie aree tradizionali. Durante un sit-in a Brasilia i rappresentanti di questo gruppo etnico furono informati che la loro causa occupava il quattrocentesimo posto nella lista delle priorità, e che il tempo per il completamento di un singolo processo è di circa dieci anni. Non possiamo attendere 4000 anni per veder applicato un diritto già riconosciutoci dalla Costituzione, dichiarò un leader Gamela al CIMI. E nel dicembre 2015 iniziarono a rioccupare i territori dai quali erano stati fatti evacuare e nei quali ora vivono in condizione di sicurezza precaria. Lasciati soli ad arginare l’invasione latifondista, alcuni gruppi indigeni si sono organizzati e rimangono di fatto l’ultimo baluardo in difesa dell’Amazonia. I Ka’apor, nello stato del Maranhão, portano avanti azioni di protezione dell’Amazzonia Orientale dal 2010. E dal 2008 detengono il triste record di 5 leader assassinati, 14 aggressioni fisiche, il rapimento di una ragazza Ka’apor di soli 14 anni come rappresaglia per aver catturato 11 taglialegna abusivi colti in flagrante, l’invasione di due villaggi e 12 tra leader e guardie forestali minacciati di morte. L’attività della Guardia Forestale Indigena continua nonostante le ritorsioni e progetti di autogestione del territorio vedono la luce nonostante la resistenza praticata dalla Segreteria dell’Educazione maranhense. Fronteggiati da un nemico comune, su iniziativa dei Ka’apor gli indigeni hanno aderito ad un accordo interno di convivenza e mostrano solidarietà reciproca nei casi di aggressione. Com’è successo questo venerdì 24 giugno, quando una marcia è stata organizzata in Avenida Paulista a São Paulo in supporto della causa dei Kaiowá o venerdì scorso, con i blocchi stradali organizzati nel Maranhão dalle tribù dei Gamela e dei Guajajara. Si parla molto delle nostre mobilitazioni, di come pregiudichino il diritto di circolazione della gente – dicono quest’ultimi nel pieno della protesta – ma ben pochi parlano del diritto alla vita che ci viene negato solo perché lottiamo per le nostre terre sacre. Le strade possono essere liberate in qualsiasi momento, ma chi ci restituirà la vita di quanti di noi sono stati assassinati? Oltre a denunciare le violenze subite dagli indigeni, le manifestazioni di questi giorni vengono organizzate per esprimere dissenso nei confronti della Proposta di Emendamento Costituzionale 215. La PEC 215, che prevede il trasferimento del compito di demarcazione dei territori indigeni dall’esecutivo al Legislativo, è in realtà studiata per ostacolare l’applicazione del diritto costituzionale di occupazione dei suoli ancestrali. Nonostante sia stata precedentemente archiviata in quanto dichiarata anticostituzionale da diversi giuristi e dalla Procura Generale della Repubblica, la proposta è stata recentemente recuperata ed è attualmente in esame presso una commissione speciale istituita da Eduardo Cunha. Gli interessi che gli indigeni, con la loro semplice esistenza, riescono a minacciare risiedono alquanto in alto nel grado delle istituzioni, e sono interessi che non possono fruttare senza la prosecuzione di un aggressivo piano di industrializzazione dell’Amazzonia. La deforestazione, che secondo la denuncia di Greenpeace incoraggia le imprese a rubare il legname dalle terre indigene per rivenderlo come prodotto legalmente acquisito sul mercato brasiliano ed internazionale, è finalguarani1izzata in primo luogo alla produzione dei biocarburanti, dei quali il Brasile è uno dei maggiori produttori al mondo. Le piantagioni di canna da zucchero non solo contano su una manodopera indigena vergognosamente sottopagata, ma sottendono l’accaparramento indebito delle riserve. E’ stato diffuso dalla stampa internazionale l’appello rivolto dai Guaraní a Coca Cola nel dicembre del 2013, in cui esortavano la multinazionale a smettere di acquistare lo zucchero dal colosso statunitense Bunge, coinvolto in uno scandalo di occupazione illegale di aree dichiarate protette. A mettere a repentaglio l’integrità delle zone più recondite dell’Amazzonia ci sono poi la costruzione di dighe idroelettriche finalizzate all’offerta di energia a basso costo alle compagnie minerarie, le attività estrattive nonché l’allevamento volto alla produzione di carni bovine e cuoio per l’esportazione. Le ripercussioni sulle comunità locali sono pesantissime. Allontanati a forza dalle loro terre natie, con le quali hanno stabilito nei secoli un profondo legame fatto di rispetto e spiritualità, molti indigeni si trovano a dover sopravvivere in baracche di plastica ai margini delle autostrade dove, impossibilitati a procacciarsi il cibo con la caccia o la pesca, sono debilitati dalla malnutrizione. Coloro che rimangono a lavorare nelle piantagioni accusano disturbi fisici causati dai pesticidi sparsi sulle piante. Ultimamente, con la crisi che sta mettendo in seria difficoltà la produzione agricola, molti si trovano a dover fare i conti con la disoccupazione. A Sertãozinho, la capitale brasiliana dello zucchero che dista 200 miglia da São Paulo, il 10% della manodopera impiegata nei canneti ha perso il posto di lavoro nell’ultimo biennio. Confinati ai margini della società, molti entrano in una profonda depressione che li porta a compiere gesti estremi. Quella innescata nella comunità guaraní è un’ondata di suicidi che non ha eguali in tutto il Sudamerica: dal 1986 si sono registrati 517 casi, il più doloroso fra tutti é forse quello compiuto da un bambino di appena nove anni. Le responsabilità di una tale violazione di diritti umani gravano sulle spalle delle istituzioni. Flávio Dino, governatore dello stato del Maranhão, è stato più volte accusato dalle ONG di aver fallito nel strutturare una Segreteria per la Tutela Ambientale che veramente ed efficacemente ostacoli le incursioni illegali di latifondisti e taglialegna, salvaguardandone così gli interessi disonesti. Ma ad allarmare ancor di più è la mancanza di impegno dimostrata del governo centrale. Durante una recente visita in Europa, il leader guaraní Tonico Benites ha lanciato un accorato allarme alla comunità internazionale: E’ in corso un lento genocidio. C’è una guerra contro di noi. Abbiamo paura. Uccidono i nostri capi, nascondono i loro corpi, ci intimidiscono e ci minacciano. La nostra cultura non permette violenze, ma gli allevatori ci uccideranno piuttosto che restituirci la terra. Gran parte di essa ci è già stata presa negli anni ’60 e ’70. Benites fa riferimento alle espropriazioni di massa avvenute durante la dittatura, che un imbarazzante rapporto riemerso quarant’anni dopo attribuisce direttamente al regime. Si tratta del rapporto redatto dal procuratore generale Jader de Figueiredo Correia, in cui vengono descritte nel dettaglio le atrocità commesse dal Servizio governativo per la Protezione dell’Indio (noto come SPI), un organismo creato per migliorare i mezzi di sostentamento delle comunità indigene, ma che é finito per diventare l’artefice delle espropriazioni e dei massacri a mezzo di fucili, veleni o la diffusione di virus come il vaiolo. Nonostante l’avvio di un’inchiesta giudiziaria e l’incriminazione di 134 funzionari pubblici accusati di oltre mille crimini tra cui assassinii di massa, torture, stupri e la riduzione in schiavitù di tribù indigene, non uno di loro è mai stato messo in carcere dalle autorità brasiliane. Il documento, rinvenuto di recente in un vecchio archivio, è ora sotto esame della Commissione Nazionale per la Verità (National Truth Commission) per far luce sulle violazioni dei diritti umani compiute in quell’epoca. Mentre le investigazioni procedono, il governo si trova a fare i conti con le pressioni esercitate dalla lobby latifondista, la quale ha già tentato di indebolire il codice forestale sotto la presidenza Rousseff e che ora, con Michel Temer al comando, è all’opera per ribaltare le leggi che il Brasile ha recentemente approvato in linea con l’accordo sul clima di Parigi. Il disegno di legge PEC 65/2012 ne è l’esempio emblematico. Svincolando le imprese dall’obbligo di fornire valutazioni scientifiche sull’impatto antropologico, botanico e biologico dei progetti di costruzione, è chiaro come la proposta sia il mezzo designato a dare il via libera alle grandi opere. Il conflitto d’interessi è evidente per Acir Gurgacz, il senatore che ne è autore: la sua famiglia possiede una società di trasporti che trarrebbe ogni vantaggio dalla pavimentazione di un’autostrada che si snoderebbe nell’Amazzonia per più di 900 km, da Porto Velho a Manaus. A sostituire Bairo Maggi, relatore originario del provvedimento e anch’egli colpito dal conflitto d’interesse in quanto coinvolto nel business della produzione di soia, è ora Randolfe Rodrigues, che fortunatamente ha dimostrato di perorare la causa ambientale ed ha rigettato tout court il disegno di legge dichiarandolo incostituzionale. La proposta verrà ripresentata e sottoposta a nuova votazione nelle prossime settimane. L’unica certezza di questi giorni è la triste realtà resa nota dal Wwf e da numerose altre associazioni ambientaliste, ossia che negli ultimi 50 anni la foresta amazzonica ha perso un quinto della sua superficie, e con essa sono stati rasi al suolo interi villaggi e massacrati centinaia di indigeni. I quali però continuano a combattere, ed in uno stoico e fiero atto di rivendicazione hanno inviato il 20 maggio scorso una lettera al governo ad interim di Michel Temer, in cui chiedono spiegazioni e responsabilità per i recenti fatti e ribadiscono che non ammetteranno nessuno attacco od erosione dei propri diritti. “Il vostro coraggio e la vostra caparbietà, fratelli, continuano ad essere una luce che non ci permette di confonderci in questi tempi difficili, e che sostiene i nostri passi nella danza e le nostre mani nella lotta per tessere un mondo nuovo, senza barriere, senza odio” (Da una lettera degli indigeni Gamela in supporto agli indigeni Guaraní Kaiowá)( Arianna Marin) 2017 Addio a Bernal Varela, attivista per i diritti delle donne indigene – Addio a Yoryanis Isabel Bernal Varela, leader della tribù Wiwa e attivista per i diritti delle donne indigene. A darne notizia è Jose Gregorio Rodriguez, segretario dell’organizzazione Wiwa Golkuche. “Yoryanis Isabel Bernal Varela era un’ attivista in tutti i processi che riguardavano la tribù indigena dei Wiwa, si batteva per i diritti delle donne e cercava sempre il dialogo con la comunità, affinché si trovassero delle soluzioni pacifiche”, spiega. La quarantatrenne Bernal Varela è stata colpita alla testa a sud di Valledupar e sull’omicidio sta indagando la polizia del luogo. Ma la donna è solo l’ultima vittima di una lunga serie di attacchi contro i leader della Sierra Nevada, che sono in prima linea per salvare gli indigeni del Sud America. Nei giorni scorsi vi abbiamo parlato dell’assassinio di Laura Leonor Vásquez Pineda e Isidro Baldenegro López, quest’ultimo vincitore del Goldman Prize nel 2005 per la sua lotta contro la deforestazione illegale. Ricordiamo ancora quello Berta Caceres che da anni lottava per difendere i diritti delle popolazioni indigene dell’Honduras e che nel 2015 aveva ricevuto il prestigioso Goldman Environmental Prize, da molti considerato il Nobel per l’ambiente. desso arriva l’ennesima sconfitta. Bernal Varela difendeva i Wiwa, una delle quattro tribù che vivono sulla Sierra Nevada de Santa Marta, una montagna a forma di piramide nel nord della Colombia. “Queste popolazioni indigene sono da sempre minacciate e intimidite. Bernal Varela era una nostra compagna, sono stati violati tutti i nostri diritti. Gli altri leader hanno bisogno di protezione” continua José Gregorio Rodríguez. Il quadro è disastroso e non è legato solo alla Colombia. Attivisti in tutta l’America latina vengono assassinati se si battono contro il furto delle terre ancestrali o contro il depauperamento delle risorse e lo sfruttamento incontrollato del suolo. E gli assassini raramente fanno i conti con la giustizia. “Con la morte di Bernal Varela se ne va una grande donna coraggiosa, da sempre in prima linea per i diritti delle donne Wiwa”, chiosa Jose de los Santos Sauna, governatore Arhuaco, Kogi e Wiwa. Dall’inizio del 2017 sono nove i leader indigeni uccisi, ma sono 119 quelle morte da quando è stato firmato l’accordo di pace con le Farc. Nel frattempo, il ministro della Difesa Luis Carlos Villegas, continua ad affermare che gli omicidi sono eventi isolati e nega la validità del paramilitarismo nel paese. (Dominella Trunfio) 2018 – Uccisa con cinque proiettili in pieno giorno per aver difeso i diritti culturali e ambientali del popolo Shipibo Konibo. Addio a Olivia Arevalo Lomas, insegnante e leader morta in Perù. Sono sempre più sotto attacco i leader che si battono per le comunità indigene. Centonovantasette è il numero degli attivisti ambientalisti uccisi nel mondo nel 2017 secondo la ong Global Witness in collaborazione con The Guardian. Uomini e donne massacrati solo per aver combattuto contro le multinazionali e i governi corrotti. Solo qualche giorno fa, vi avevamo parlato di un’altra esecuzione in piena regola, quella di Marielle Franco, nota militante per i diritti umani che durante una delle sue lotte aveva denunciato la polizia militare. Insegnante e leader Shipibo, Olivia Arevalo Lomas è stata uccisa giovedì 19 aprile a mezzogiorno vicino alla comunità interculturale ‘Victoria Gracia ‘, situato a venti minuti dalla città di Yarinacocha, Ucayali. Cinque colpi di pistola le hanno trafitto il petto, secondo quanto riferito su facebook dalla Federazione delle comunità native di Ucayali e Affluentes (FECONAU) che insieme ad altre organizzazioni ha condannato l’attacco chiedendo garanzie da parte dello Stato per i leader delle popolazioni indigene, che devono affrontare continue minacce di morte da parte di criminali. “La nostra riconosciuta sorella shipibo-Konibo Olivia arévalo lomas è stata uccisa con cinque colpi al cuore da sconosciuti”, dice la nota. “Facciamo un richiamo nazionale e internazionale affinché lo stato peruviano dia garanzie di sicurezza per gli altri leader indigeni del popolo shipibo konibo che oggi affrontano minacce di morte e persecuzioni”. Il ministero della Cultura ha condannato l’omicidio della saggia indigena Olivia Arévalo e ha riferito che darà tutto il sostegno necessario alla comunità Shipibo-Konibo, chiarendo che si è già al lavoro per individuare i responsabili. Ciò che rimane certo è che la situazione degli indigeni dell’Amazzonia è sempre più preoccupante per chi ha come mission quella di difendere terre ancestrali e popoli indigeni e la natura, dal saccheggio incontrollato di risorse. (Marta Albè) In Brasile si indaga su un massacro di dieci indigeni nel mezzo della Foresta Amazzonica – Alcuni cercatori d’oro si sono vantati in un bar di averne uccisi dieci, ma trovare prove sarà difficilissimo. Le autorità brasiliane stanno indagando su un possibile massacro avvenuto in una remota regione della Foresta Amazzonica, nel quale alcuni cercatori d’oro avrebbero ucciso dieci membri di una tribù che vive isolata dalla civiltà. L’indagine è cominciata dopo che alcuni minatori, mentre erano in un bar, si sono vantati di avere compiuto il massacro, raccontando di aver dovuto uccidere gli indigeni dopo averli incontrati lungo un fiume, per evitare di essere a loro volta uccisi. Gli uomini avevano con loro una pagaia intagliata che hanno detto di aver rubato ai membri della tribù uccisi; hanno raccontato anche di aver fatto a pezzi i corpi e di averli buttati nel fiume. Il massacro, secondo Leila Silvia Burger Sotto-Maior, che lavora all’Agenzia brasiliana per le popolazioni indigene e si occupa delle tribù mai entrate in contatto con la civiltà o entrate in contatto soltanto di recente, si è svolto il mese scorso, nella Valle di Javari, un territorio vicino al confine con il Perù che è una delle 672 regioni indigene del Brasile, cioè quelle aree abitate prevalentemente da popolazioni native, che possono o meno essere entrate in contatto con la civiltà. Per raggiungere il luogo in cui vive la tribù, gli investigatori devono fare un viaggio di 12 giorni in barca, lungo i fiumi che attraversano la Foresta Amazzonica. Due uomini sono stati arrestati negli scorsi giorni nell’area per aver cercato illegalmente l’oro, ma non sembrano essere collegati al presunto massacro, che secondo Sotto-Maior sarà molto difficile da indagare, perché ci sono molti indizi ma manca una prova concreta che sia avvenuto. Pablo Luz de Beltrand, il procuratore che sta guidando l’indagine, ha detto: «Stiamo facendo i riscontri, ma i territori sono grandi e l’accesso è ridotto. Queste tribù sono isolate, perfino la Funai (un’agenzia governativa che si occupa di popolazione indigene) ha soltanto informazioni sporadiche su di loro. Perciò è un lavoro difficile, che richiede che tutti i dipartimenti del governo lavorino insieme». Queste popolazioni, che in tutto contano circa un milione di persone, sono tutelate da gruppi di attivisti e dalla Funai. Il governo, quest’anno, ha però deciso di dimezzare i fondi destinati all’agenzia, costringendola a chiudere due uffici nella valle di Javari, dove si è svolto il presunto massacro, dove vive circa un quinto delle popolazioni indigene brasiliane e la maggior parte di quelle non contattate nel mondo. La Funai ne ha chiusi in tutto 19, che usava per monitorare e proteggere le tribù locali. Le regioni sono molto frequentate da cercatori d’oro che svolgono illegalmente le loro attività, e non è la prima volta che si sospetta si siano scontrati con le popolazioni indigene. Un altro caso, risalente allo scorso febbraio, è ancora aperto. In molti stanno criticando le sempre minori tutele garantite alle tribù dal governo locale, che ha annunciato di voler ridurre il territorio protetto e di fare maggiori concessioni ai cercatori d’oro. Lo stesso presidente brasiliano Michel Temer ha cercato di ottenere il consenso delle grandi società agricole e di estrazione mineraria facendo concessioni legate al disboscamento e allo sfruttamento delle risorse nell’Amazzonia, che in alcuni casi sono state bloccate dai tribunali. Sarah Shenker, attivista dell’organizzazione Survival International, che si occupa di popolazioni indigene, ha detto che se il massacro venisse confermato sarebbe «una diretta conseguenza del fallimento del governo brasiliano nel proteggere le tribù isolate, cosa garantita dalla Costituzione». Gli indigeni non sono il solo gruppo a subire le violenze legate allo sfruttamento delle risorse: nei primi sette mesi del 2017 sono stati uccisi 50 tra membri di tribù, contadini locali e attivisti, mentre in tutto il 2016 erano stati 61. Perfino la polizia è stata accusata di compiere queste violenze, come nel caso di dieci attivisti che sono stati uccisi in un’operazione lo scorso maggio.
La terra degli uomini rossi: https://www.youtube.com/watch?time_continue=1500&v=iA7OYAa3aVI