le radici (dell’albero) dello yoga

Pretendere di costruire un palazzo senza le fondamenta, pretendere che un albero stia su con rami foglie e tronco senza le radici… Prima le radici. Nel Raja Yoga cioè non in uno stile o un genere ma nello yoga. Con tutte queste personalizzazioni questo scorporamento dell’anima che gli occidentali fanno a tutto quello che arriva, questa grande confusione; questo togliere l’anima alle cose renderle superficiali non è per niente casuale. Sottostare alla mente gestita dalle paure. Togliere anima vuol dire impoverire togliere le radici all’albero per non farlo crescere, deviarne il corso naturale. È molto meglio che una persona vada a fascinazioni, a fittonate, zompando da una all’altra cosa, piuttosto che riesca a prendere radici a ramificarsi perché così davvero diverrebbe forte e sarebbe incamminata verso la propria liberazione iniziando a percepire cosa c’è dietro l’illusione. L’albero del Raja Yoga come l’albero della conoscenza suprema deve essere capito e portato avanti non basta qualche briciola di pranajama, non bastano le asana la parte ginnica ben allenata, non bastano senza Yama e Niyama le radici dell’albero. L’albero dello yoga non è un asana non è solo Vrksasana. Il Raja Yoga viene anche relegato ad uno stile ma non è uno stile il Raja Yoga è lo yoga. Quindi non è comparabile ad altri cosiddetti stili e personalizzazioni occidentali e non. Trova un Maestro (in te) non perdere tempo! LO YOGA DEFINITO DA PATANJALI – Patanjali codifica in modo sistematico le tappe che il ricercatore deve percorrere per giungere alla Conoscenza, scrivendo un trattato scientifico, lo Yoga Sutra, diviso in quattro capitoli: SAMADHI PADA” sezione I sull’estasi “,SADHANA PADA” sezione II sulla pratica”, VIBHUTI PADA” sezione III delle vibhuti”,KAIVALYA PADA” sezione IV dell’isolamento”. Egli definisce lo Yoga come un Albero con otto rami ovvero una divinità con otto braccia. Gli otto ASHTANGA, braccia o rami costituiscono il Raja-Yoga. Si tratta del procedimento inverso a quello descritto nel Samkhya, il praticante procede dal grossolano verso il sottile, dal molteplice per arrivare alla comprensione dell’UNO. Samkhya e Yoga sono inscindibili. Questo è il percorso dello yoga che il praticante deve avere senza tralasciare o sottovalutare nessun aspetto dell’Ashtanga. Ci sono molti siti e molti libri che invece di chiarire come in apparenza sembra che fanno ma in realtà tendono a far confusione mescolando tutto. Cosa sono i cinque Yama? Sono principi etici finalizzati al controllo ed eliminazione di quegli ostacoli emotivi e di pensiero che fanno parte della vita degli esseri umani. Il termine Yama è associato a una figura mitica, il figlio di Vivasvat, il primo uomo che ha conosciuto la morte secondo le fonti, e dunque colui che accompagna il defunto al regno degli antenati. In generale, invece, i cinque Yama sono: Ahimsa, Satya, Asteya, Brahmacharya, Aparigraha. Si tratta di astensioni, pratiche di natura morale e di controllo, o freno, da seguire al fine di migliorare la qualità dei nostri pensieri e delle nostre azioni nel mondo e a livello sociale. Queste astensioni sono fondamenti indispensabili per la nostra evoluzione personale. Ahimsa potrebbe essere tradotto con “non violenza” in un senso molto più ampio di quello che potrebbe apparire, si tratta di una sorta di inoffensività nei confronti degli altri esseri viventi. Satya corrisponde alla pratica della verità e dunque astensione dalla menzogna, di grande ostacolo per il raggiungimento ultimo dell’illuminazione, ma soprattutto per tutto il lungo persorso di pratica da seguire. Asteya potrebbe corrispondere al concetto del non rubare. Brahmacharya significa “essere Maestri di sé stessi in Brahman”. Ciò significa che occorre praticare continenza, ovvero seguire la giusta misura nei confronti dei piaceri della vita, non solo di natura sessuale. Aparigraha significa infine non accumulare e tenere giusto ciò che serve per vivere senza eccedere. Le pratiche del Niyama sono invece una forma di disciplina che potremmo definire più personale, comportamenti nei confronti di noi stessi, vere e proprie osservanze e non divieti come per gli Yama. Si tratta di Saucha, Santosha, Tapas, Swadhyaya, Ishvara Pranidhana. Sauca equivale alla purezza di pensiero e intenzioni, e alla pulizia del corpo, e testimonia la grande attenzione che la filosofia yogica dedica all’essere umano nella sua totalità. Samtosa corrisponde l’appagamento, un sentimento particolarmente importante che ci consente di sentirci in equilibrio e armonia con la volontà universale. Tapas è la fede da mantenere viva costantemente come una fiamma, è l’amore per il Divino. Svâdhyâya è invece lo studio, la ricerca di Sé. Infine Ishvara Pranidhana corrisponde alla resa, all’abbandono al Divino come rifugio e rinuncia a riconoscere il supremo. La maggior parte delle persone crede di fare scuole e stili praticare la ginnicità dello yoga ma si sbaglia sottovalutando la completezza e rimanendo legato al proprio ego e alla propria identificazione mentale forviante ed illusoria. Molti cosiddetti maestri indiani probabilmente hanno contribuito al fraintendimento credendo di far bene e usando l’aspetto esteriore dello yoga per farlo penetrare in occidente. È dunque un grosso errore che crea squilibri che ogni giorno vedo negli allievi di scuole scegliere senza avere l’umiltà prima di aprirsi, la disponibilità ad imparare per cambiare Davvero. YAMA E NIYAMA – In Occidente lo Yoga è conosciuto dalla grande maggioranza delle persone come una disciplina prevalentemente fisica, nella quale si eseguono delle posizioni atte a sciogliere le articolazioni e ad allungare i muscoli, e dei rilassamenti che producono un notevole benessere fisico. Ma sono in pochi a sapere che questo è solo un aspetto dello Yoga e che esso è definito “Yoga inferiore”. Da diversi anni in Italia si parla sempre più diffusamente dello Yoga, ma sono sempre troppo pochi quelli che sanno di cosa stanno parlando. Purtroppo è così frequente incontrare persone che dopo solo due o tre anni di “pratica” (che si riducono poi a due ore alla settimana e magari con insegnanti neanche qualificati) si mettono ad insegnare Yoga, gratificando così il loro ego e prendendo in giro le persone. Se sapessero il danno che provocano a se stessi urlerebbero, per lo spavento, con quanto fiato hanno in gola! Nello Yoga inferiore sono comprese anche le pratiche atte al risveglio della Shakti, attraverso l’uso della sessualità, e la manipolazione della Shakti attraverso pratiche più vicine alla magia. Il secondo aspetto dello Yoga è quello “superiore” in cui le varie tecniche dello Yoga sono finalizzate alla ricerca del Sé. Tra l’800 e il 300 avanti Cristo un saggio di nome Patanjali, mise ordine nelle varie pratiche dello Yoga codificando così quello che conosciamo come Astanga Yoga o “le Otto Braccia dello Yoga” o anche Raja Yoga, lo Yoga Regale. Queste otto braccia sono: Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana, Samadhi. L’ordine con cui sono state disposte le otto braccia non è casuale, Yama e Niyama sono al primo posto perché sono la base su cui poggia tutto il lavoro di ricerca dello Yoga. Le Asana seguono immediatamente Yama e Niyama perché attraverso esse la persona si equilibra e si rafforza in modo da poter affrontare preparata il Pranayama. Quando si acquisisce il controllo sul Prana si accede al Pratyahara e attraverso esso alla concentrazione (Dharana), dalla concentrazione alla meditazione (Dhyana) ed infine dalla meditazione al Samadhi, o fusione nel Divino. Questo ordine non è rigido, infatti quando noi eseguiamo le Asana normalmente abbiniamo un ritmo respiratorio o un tipo di respirazione, quindi Asana e Pranayama possono andare insieme, come pure il Pratyahara o il Dharana possono essere applicati durante un Asana. In effetti le otto braccia si compenetrano. I Pancha (cinque) Yama e dei Pancha Niyama – Lo scopo principale di questo codice etico è di eliminare tutti i disturbi mentali ed emotivi che caratterizzano la vita dell’essere umano ordinario. Odio, disonestà, disprezzo, sensualità, possessività, sono alcuni tra i vizi più comuni dell’uomo e finché esso sarà soggetto a questi vizi la sua mente resterà preda di disturbi violenti, o anche poco percepibili, di carattere emotivo, che hanno in tali vizi la loro origine. Finché tali turbe rimangono, è perfettamente inutile intraprendere lo Yoga più elevato. In tutte le tradizioni esoteriche ci sono codici etici da rispettare, nel Cristianesimo, per esempio, abbiamo i Dieci Comandamenti, senza l’osservanza dei quali è impensabile definirsi Cristiani. YAMA – Il termine Yama nelle scritture sanscrite viene attribuito ad una figura mitica; Yama è infatti il Signore giudice dei morti, figlio di Vivasvat. Egli fu il primo uomo a morire e secondo la tradizione, è lui che conduce il defunto al regno dei suoi antenati. Nel contesto Yoga , Yama va inteso come il “trattenitore”, dalla radice Yam che significa frenare, controllare, cessazione. Yama, quindi è l’astinenza che deve essere applicata ai pensieri, alle parole e alle opere. I cinque Yama sono: AHIMSA, SATYA, ASTEYA, BRAHMACHARYA, APARIGRAHA. AHIMSA – Ahimsa è formato da A che rappresenta la negazione e da Himsa che significa uccidere, violenza. E’ quindi l’astensione dal fare violenza. E’ un atteggiamento o un modo di comportarsi non violento nei confronti di tutte le creature viventi. Esso è basato sull’unicità della vita. E’ uno fra i più importanti fondamenti morali della disciplina Yoga, che va interpretato con un significato molto più vasto di quello che indica la sua etimologia. Ahimsa non è solo un corretto comportamento etico sociale, ma una eliminazione totale del seme della violenza che è latente in noi. Per esempio, se una mosca ci dà fastidio, la non violenza non è il fermare la mano un attimo prima di schiacciare l’insetto, bensì il non aver neanche l’impulso di schiacciarla. Lo Yogi pratica attivamente Ahimsa perché sa che la violenza produce un Karma che condizionerà negativamente la sua evoluzione spirituale e renderà la sua esistenza un pesante fardello di miserie. La violenza nasce soprattutto dalla paura, dall’ignoranza e dalla debolezza. Gli atteggiamenti di vendetta, gelosia, disprezzo e odio, generano non solo grosse forze di violenza materiale, ma anche forme più sottili, meno avvertibili e più pericolose, che si manifestano sul piano del conscio e dell’inconscio, e agiscono al di fuori della legge e non incorrono in sanzioni sociali. Per attuare correttamente l’Ahimsa necessita il discernimento, la discriminazione (Buddhi). Questa facoltà la si sviluppa attraverso un lungo tirocinio che consiste nel fare sempre la cosa giusta ad ogni costo. Solo operando il giusto accumuliamo ulteriore forza per operare il giusto e per acquisire così la capacità di vedere cosa sia giusto. Occorre una continua osservazione della propria mente, delle proprie emozioni, parole ed opere e incominciare a regolarle in accordo con l’ideale della non violenza. A poco a poco tutto ciò che è violento in noi ci si rivelerà . Gradualmente questo ideale di non violenza, che apparentemente può sembrare erroneamente inoffensività, si trasformerà in una vita d’amore positiva e dinamica, compassionevole verso ogni creatura e disposta al servizio altrui. L’amore è l’unico linguaggio universale che è compreso da tutti gli esseri della manifestazione. Rappresenta il più alto grado di non violenza che l’uomo può raggiungere. SATYA – Satya è il nome di uno dei Visva (Princìpi Universali), è il primo dei quattro Yuga (era, età). Esso significa “vero”, “reale”, ed è un attributo di Vishnu, esempio e modello di verità. Satya è quindi l’astenersi dal mentire e va intesa con il significato più ampio che il concetto può dare. Per lo Yogi significa l’astensione rigorosa dall’esagerazione, da ogni equivoco, da ogni pretesa e da tutto ciò che non ha a che fare con quanto conosce come vero, perseguendo quindi l’assoluta verità nel pensiero, nella parola e nell’azione. Satya è indispensabile per il ricercatore della Verità perché il sentiero da lui scelto per arrivare al Supremo, è l’assoluta negazione dell’illusione. Nella società la menzogna è considerata in generale un male, ma esistono varie forme più sottili di menzogna ritenute non biasimevoli; quante volte non siamo sinceri con noi stessi giustificando i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre opere. E’ molto importante seguire la verità perché la menzogna crea complicazioni nella nostra vita e disturba in modo fastidioso la nostra mente. Solitamente si fa ricorso alla bugia per evitare difficoltà; in realtà andiamo in contro a difficoltà maggiori dovendo sostenere la menzogna, e siccome le situazioni sono in continuo mutamento, finiscono per portare alla luce le nostre bugie. Questo continuo sostenere la menzogna, determina una tensione nella nostra mente subconscia ed offre terreno fertile ad ogni tipo di turba emotiva. L’uomo facile alla menzogna non si accorge di ciò. Solo con la pratica di Satya possiamo accorgerci di questi meccanismi perversi. E’ naturale accorgersi delle forme più sottili di ogni vizio quando sono state eliminate quelle più grossolane. La pratica di Satya è assolutamente indispensabile se si vuole sviluppare la Buddhi. Il Sadhaka che intraprende la via dello Yoga Regale va incontro a numerosi ostacoli e problemi che non saranno risolvibili se non attraverso l’intuizione e il discernimento non offuscati. E non c’è nulla di più offuscante della menzogna. Se il nostro discernimento sarà limpido potremo capire quando un’affermazione veritiera può essere detta e quando no. Se per esempio ad una persona affetta da cancro io la metto al corrente della sua situazione, in nome della verità, e questa persona, dalla disperazione tenta il suicidio, è chiaro che “in nome della verità” io ho commesso un’azione estremamente negativa. Al contrario, se una mia affermazione non sincera può essere di grande aiuto a qualcuno, il nostro discernimento ci suggerirà di mentire. Essere sinceri non vuol dire esprimere sempre quanto pensiamo. Un’affermazione nociva basata su dei fatti ovvi ma superficiali e temporanei è, nel profondo senso spirituale, una cosa non veritiera. ASTEYA – La lettera A è una negazione e il termine Steya significa rubare, quindi Asteya è l’astensione dal furto. Anche il concetto di Asteya non deve essere limitato solo al non appropriarsi delle cose del prossimo, ma va esteso a tutte le forme di appropriazione indebita. Chiunque abbia sviluppato un minimo di senso morale si asterrà dal rubare, ma pochi possono essere considerati privi di colpa dal punto di vista strettamente morale. Infatti con appropriazione indebita si intende accettare compensi per aver svolto il proprio dovere, accettare lodi, onori, privilegi e apprezzamenti non meritati. Si intende non agognare la proprietà altrui, non desiderare nulla che non sia nostro. Asteya comprende anche l’uso diverso o sbagliato di cose che non ci appartengono, il loro abuso, la loro cattiva conservazione, la loro non restituzione a tempo dovuto. Dal desiderio di ricchezza, potere e fama scaturisce lo stimolo a possedere le cose altrui. Più si è deboli, ignoranti e paurosi e più c’è il bisogno di possedere molte cose belle e costose, per poterci sentire qualcuno. Più si cercano soddisfazioni mondane e più i desideri accrescono il loro potere diventando esigenze e attaccamenti che ci rendono sempre più deboli e poveri. Per uscire da questo vortice di miserie, per poter partecipare a tutti i beni della creazione, si deve essere consapevoli che ogni desiderio, ogni attaccamento è causa di schiavitù e di sofferenza e solo attraverso il distacco si può agire pur restando liberi da ogni vincolo. L’allievo che vorrà intraprendere lo Yoga superiore dovrà imparare ad eliminare queste tendenze indesiderabili fino a rendere la mente pura e tranquilla. BRAHMACHARYA – Letteralmente significa castità, celibato. E’ uno Yama molto discusso e contestato dalle varie correnti all’interno dello Yoga, infatti molti criticano la sua applicazione pratica per timore di perdere i piaceri del sesso, altri lo interpretano come una pratica moderata dei piaceri sensuali. Se leggiamo gli Yoga Sutra, Patanjali non ha dubbi: se si vuole seguire la via dello Yoga Superiore, il sesso e tutti i piaceri sensuali devono essere abbandonati. L’energia sessuale è una grande forza che l’uomo ha e che normalmente non controlla. Quando la marea del desiderio cresce dentro di lui, considera come unica soluzione la possibilità di liberarsene godendo di un fugace senso di potenza, per tornare ad uno stato di relativo torpore in cui il desidero non lo importuna più. Questa grande energia viene così dissipata impedendo alla sua consapevolezza di crescere. Reprimere questo tipo di energia sarebbe molto pericoloso, proviamo ad immaginare che cosa accadrebbe ad una pentola a pressione senza la valvola di scarico. Dopo un po’ la pressione sarebbe tale da far esplodere la pentola. Così è l’energia sessuale repressa, farebbe esplodere la nostra mente. E allora come fare? L’energia sessuale deve essere sublimata. Deve essere trasformata in energia mentale. Per chi pratica il Brahmacharya sono indispensabili Asana, Kriya e Mudra, che sono i mezzi per il controllo e la trasmutazione di tali energie. Per le persone sposate la pratica del Brahmacharya non è di facile applicazione, basterà essere moderati nel sesso e, col tempo, abbandonarlo. Oppure sacralizzare l’atto sessuale vedendo nel proprio partner la Divinità. APARIGRAHA – Viene abitualmente tradotto come assenza di avidità, ma il termine “non possessività” è molto più corretto. Per capire il motivo per cui Aparigraha è importante, bisogna pensare all’influenza negativa che la possessività esercita su di noi. L’impulso ad accumulare beni mondani è così forte nell’uomo che lo si può considerare quasi un istinto fondamentale della vita umana. E’ nostro dovere ricercare le cose essenziali che ci permettano di vivere una vita decorosa, ma l’avidità per le cose che in realtà non sono necessarie, oltre a determinare i ben noti inconvenienti e ingiustizie nel mondo economico e sociale, produce anche gravi conflitti nella vita individuale, considerando i fattori in essa coinvolti: tempo, denaro ed energia spesi per accumulare, mantenere e custodire beni superflui; le paure, il dolore, l’ansia costante che crea il timore di perderli, gli attaccamenti, l’egoismo, le gelosie, l’orgoglio che essi producono nell’uso che ne facciamo; il condizionamento fisico e mentale che ne deriva, nel sottometterci immancabilmente a dipendere da essi. Aparigraha non vuole censurare, né indulgere su ciò che materialmente possediamo, ma eliminare gli attaccamenti e le dipendenze che ne possono derivare. Le cose più comuni che possiamo avere ogni giorno, offrono tutto quello che occorre per vivere una vita in armonia con il Dharma (legge di armonia Universale). Vivere con animo tranquillo, senza desideri, la mente aperta e in atteggiamento di attesa, accontentandoci di quanto ci offre la vita, secondo la legge del Karma, conduce all’evasione dai limiti dei nostri condizionamenti e a spaziare nell’immensità del tutto. Così il poco che è in una esistenza è sempre abbastanza, e abbastanza e sufficiente a raggiungere l’integrazione assoluta. NIYAMA – Ad uno studio superficiale, gli Yama e Niyama possono sembrare pratiche aventi lo scopo di trasmutare la nostra natura inferiore, in modo da poterla usare come un veicolo della vita Yoga. Ma ad uno studio più attento si vedrà subito la differenza tra queste due pratiche. Gli Yama sono pratiche di tipo morale e vietano, mentre le pratiche del Niyama sono di tipo disciplinare e costruttivo. I primi mirano a porre il fondamento etico nel Sadhaka (praticante), i secondi ad organizzare la sua vita in vista della dura disciplina Yoga che seguirà. Queste differenze di finalità generano differenze nella natura degli esercizi stessi. Osservando gli Yama, il Sadhaka reagirà alle situazioni che la vita gli presenterà in accordo con tali osservanze, ma il numero e il carattere delle occasioni che sorgeranno nella sua esistenza, atte ad esigere l’esercizio delle cinque virtù, dipenderà naturalmente dalle circostanze. Se, per esempio, il Sadhaka decidesse di ritirarsi a condurre una vita da eremita, difficilmente avrà occasione di mettere in pratica tali virtù. Ben diverso è il caso del Niyama, le cui pratiche devono essere eseguite sempre, qualunque siano le circostanze in cui si trova il Sadhaka. Esse si realizzano al di fuori di ogni considerazione religiosa, sociale, di età, di stato di vita, di condizione mentale. E’ un lavoro che va affrontato coscienti di ciò che vogliamo realizzare, con animo aperto, senza preconcetti, con volontà e costanza, senza automortificazione, senza autoindulgenza. Con i Niyama siamo in grado di affrontare e dissolvere definitivamente le tendenze Karmiche (istintività) che interferiscono con l’impegno evolutivo del Sadhaka. I cinque Niyama sono: SAUCHA, SANTOSHA, TAPAS, SWADHYAYA, ISHVARA PRANIDHANA. SAUCHA – Saucha è il primo elemento del Niyama e significa purezza. Per lo Yoga, la totalità dell’Universo, visibile ed invisibile, costituisce una manifestazione dell’Assoluto, ed è pervasa dalla Sua Divina Coscienza. Da questo punto di vista, nulla è da considerarsi impuro in senso assoluto. Perciò, quando impieghiamo i termini puro e impuro in rapporto alla nostra vita, li impieghiamo ovviamente in senso relativo. Il termine “purezza” va riferito non solo al nostro corpo materiale che identifichiamo attraverso i sensi, ma a tutti i cinque Kosha (corpo fisico, vitale, mentale, intellettuale, causale) con il fine di trasmutare gli stati di coscenzialità di questi veicoli dallo stato Tamasico (inerzia, contrazione) a quello Sattvico (espansione, conoscenza). Realizzare questa Sadhana significa asportare dai cinque Kosha quegli elementi di disturbo e quelle forme di condizionamento che impediscono loro di esercitare con efficienza l’intrinseca funzione di strumenti potenziali dei processi vitali e spirituali. Il primo corpo che dobbiamo purificare è l’Annamayakosha, o il corpo fisico. Esso si occupa esclusivamente della pura sussistenza fisica. E’ costituito da elementi chimici provenienti dal nutrimento solido, liquido e gassoso, ed alle funzioni metaboliche, perciò viene chiamato “corpo del cibo”. Esso è in relazione con gli altri quattro corpi superiori e da essi viene animato e alimentato di energie Praniche. Le purificazioni legate a questo corpo sono i Shatkarma. Il secondo corpo da purificare è il Pranamayakosha, o corpo vitale. Esso è costituito dai Prana Vayu (Prana, Samana, Udana, Vyana, Apana, ecc.) i quali operano, attraverso le Nadi, sui vari Kosha producendo tutte le attività vitali, dalla motricità al pensiero. Per la purificazione del Pranamayakosha, la Sadhana prevede il Pranayama, i Bandha, i Kriya e i Mudra le quali tecniche operano una purificazione e un riequilibrio dei circuiti Pranici o Nadi. Il terzo corpo è il Manomayakosha, o corpo mentale o psichico. E’ lo psichismo in genere. Comporta gli strumenti della percezione e dell’azione. Comprende la memoria individuale ed ereditaria, gli istinti caratteriali, tutti i condizionamenti, i complessi, le sensazioni e l’inconscio. Esso, attraverso i Chakra, governa il corpo Pranico e attraverso questo promuove coscientemente l’attività del corpo fisico. Il Manomayakosha è dominato prevalentemente da abitudini e ricordi. Ripete con persistenza, ogni volta che può, ciò che è stato represso: istinti, desideri, paure, ecc., condizionando le funzioni dei processi psichici. Queste Vitarkas, o stati irrazionali del mentale, costituiscono l’inquinamento del Manomayakosha, rendendolo incapace di percepire il senso della ragione e del discernimento provenienti dal Kosha superiore e, di conseguenza, di governare con consapevolezza la funzionalità del corpo Pranico e fisico. Le tecniche di purificazione del Manomayakosha fanno parte dell’Antaranga Yoga, o Yoga interiore, a cui si accede solo sotto la guida esperta di un Guru. Kriya, Mantra, Yantra e Dharana fanno parte dell’Antaranga. L’aspetto esteriore dello Yoga, è chiamato Bayranga. Il quarto corpo è il Vijnanamayakosha. E’ lo stato più denso dell’anima individuale incarnata (Jivatman). Di questo corpo fanno parte il mentale o pensiero (Manas) che ha la proprietà di delineare le cose; l’ego (Ahamkara) che ha la proprietà di identificare il corpo nell’io individuale; la sostanza del pensiero (Chitta) che ha la proprietà di memorizzare gli eventi che la stimolano; l’intelletto, il discernimento (Buddhi) che ha la proprietà di discriminare. Esso si trova in stretto rapporto col Manomayakosha e agisce sull’equilibrio delle pulsioni egoiche inconsce, sul controllo degli istinti e sulla coscienzialità del bene del male nel contesto del Dharma Universale (Legge Cosmica). La Sadhana di purificazione che va aggiunta a quelle che si sono sviluppate precedentemente, è il Dhyana. L’Anandamayakosha è l’ultimo corpo, quello più sottile e in cui si evidenzia l’aspetto più Sattvico (puro, spirituale) raggiungibile. La sua natura è coscienza pura, pace e beatitudine assoluta (Ananda). Esso cela l’ultima barriera dell’ignoranza (Avidya) che ci divide dalla Coscienza Cosmica (Atman). SAMTOSHA – Samtosha è il secondo Niyama, e viene tradotto con il termine “appagamento” o “accontentamento”. Anche in questo caso dobbiamo estendere il significato del termine. Appagamento non è solo accontentarsi di ciò che si ha, ma è il rinunciare all’attaccamento alle cose che non si hanno. Il desiderare sempre cose nuove mette la nostra mente in uno stato di continua agitazione e di estroversione, mentre per raggiungere stati più alti nello Yoga, è indispensabile avere la mente calma qualunque cosa accada intorno a noi in modo che essa, invece di proiettarsi all’esterno, possa proiettarsi all’interno di se stessa. Con ciò si acquisisce il controllo della mente e il potere di prevenire la possibilità che un qualunque disturbo si verifichi all’interno di essa. Lo Yogi sa che non appena un disturbo si verifica all’interno della sua mente, occorre un’energia assai superiore per dominarlo completamente e che, sebbene esteriormente possa rapidamente svanire, sul piano intimo ed inconscio esso persiste per lungo tempo. Questo appagamento non equivale all’inerzia o mancanza di iniziativa, bensì è una condizione mentale positiva e dinamica. Si fonda sull’indifferenza a tutte quelle gioie, comodità ed altre considerazioni di indole personale che influenzano l’umanità. Lo scopo dello Yogi è il conseguimento di quella pace che ci pone completamente al di là del dominio dell’illusione e della miseria. Ma questa meta non è così semplice da raggiungere, si deve combattere contro le abitudini radicate nel mentale attraverso innumerevoli esistenze. Le nostre abitudini sono modificabili attraverso ciò che si pensa, per esempio: se in me esiste l’abitudine della pigrizia, il mio pensiero dovrà essere sempre di attività in modo tale da sostituirsi all’abitudine negativa. Occorre dare alla mente delle buone determinazioni e il piacere materiale deve essere subordinato a quello spirituale. Gioire senza desideri egoici di qualsiasi cosa che viene a noi, così come accettare che ci venga tolta, sentirsi pieni, sazi, soddisfatti di ciò che abbiamo, di dove ci troviamo e di come siamo, è il modo più completo che si conosca per raggiungere le più grandi ricchezze che si possono avere dalla vita. TAPAS – Il significato di Tapas combina in sé diversi significati, come purificazione, autodisciplina, austerità. Viene tradotto anche coi termini “calore”, ”ardore” prodotti attraverso le pratiche ascetiche e soprattutto la pratica della castità. Il significato del termine deriva probabilmente dal processo che consiste nello scaldare il materiale aurifero fino a che le scorie non brucino lasciando l’oro puro. Il termine racchiude molte pratiche il cui fine è purificare e disciplinare la nostra natura inferiore e sviluppare una ferrea volontà. Nel senso ortodosso del termine, Tapas viene impiegato per certi esercizi specifici adottati per la purificazione, il controllo del corpo fisico e lo sviluppo della forza di volontà. Fanno parte del Tapas pratiche di digiuno, il silenzio, il Panayama. Si possono unire più Tapas contemporaneamente, come il silenzio unito al digiuno; sono considerate aberranti e demoniache le pratiche estremiste di mortificazione del corpo, come l’autolesionismo o il costringere una parte del corpo all’immobilità per anni, ecc. Nel culto cristiano, la pratica del Tapas consisteva in quelle rinunce che S. Francesco chiamava fioretti. La vita comoda e agiata che soddisfa così tanto i nostri sensi, in realtà compie un’azione distruttiva nei confronti della nostra energia vitale e della nostra coscienza. Inserire la pratica del Tapas nella nostra vita, vuol dire ridare vigore alle nostre energie e ottenere una quiete mentale che unisce il Sadhaka al Brahman. SWADHYAYA – Il termine Swadhyaya è composta dalla sillaba Swa che significa “proprio” e dalla parola Adhyaya che significa “studio”. Pertanto il significato attribuito a questo Niyama e “studio di Sé”. In senso più ristretto, è tradotto anche come studio delle Scritture. Per intraprendere la via dello Yoga, è consigliato avvicinarsi per gradi, per non ritrovarsi da esso respinti con la stessa energia con cui , per entusiasmo, ci siamo avvicinati. Capita spesso incontrare allievi che rimangono affascinati dallo Yoga, e con grande entusiasmo si lanciano in questa avventura, ma ben presto spariscono e di loro non se ne sa più niente. Chiunque abbia familiarità con la meta della vita Yoga e col tipo di sforzo che essa implica per essere realizzata, si renderà conto che non è possibile né consigliabile a nessuno che sia assorbito nella vita mondana gettarsi subito nella pratica normale dello Yoga. Attraverso Swadhyaya il Sadhaka si inoltra nello studio delle Sacre Scritture, il cui scopo è palesare la natura illusoria della manifestazione e rivelare lo Spirito Supremo come sola realtà, ed esse sono per lui un alimento indispensabile per nutrire il mentale o io individuale, e aiutarlo ad evolversi. Lo studio dei grandi pensieri di coloro che hanno raggiunto e trovato la Verità stimola la comprensione interiore e accresce la consapevolezza del Sé Supremo. Però non è possibile giungere a qualsiasi affermazione solo in virtù di una semplice, anche se profonda, comprensione intellettuale; infatti è lo studio di sé, attraverso l’introspezione e l’autoanalisi, che si possono realizzare tali affermazioni, perché la Verità non è raggiungibile attraverso un’azione mentale, bensì attraverso l’intuizione che emerge da uno stato di assorbimento in Essa. Per determinare questo stato concentrato di assorbimento è di grande aiuto l’uso dei Mantra come le Gayatri o il Pranava (AUM). Essi armonizzano i veicoli inferiori della coscienza (Kosha o corpi), li rendono sensibili alle vibrazioni più sottili, ed infine determinano una fusione parziale tra la coscienza inferiore e quella superiore. ISHVARA PRANIDHANA – E’ tradotto con “devozione totale al Supremo”, o “abbandono totale al Supremo”. “Sia fatta non la mia, ma la Tua volontà” è l’atteggiamento mentale che caratterizza questo Niyama. Il significato Yogico più razionale che si prefigge l’Ishvara Pranidhana, è che mediante la devozione si libera la coscienza dal condizionamento dell’ego, si dissolvono le barriere che separano l’io individuale dall’Io Supremo e si riconosce l’esistenza e la realtà dell’unico e indifferenziato Io o Assoluto. Per comprendere il significato e la tecnica dell’Ishvara Pranidhana, è necessario ricordare come l’io individuale si lasci invischiare nella manifestazione attraverso l’ignoranza, il che ha come risultato il suo assoggettamento all’illusione e alle conseguenti sofferenze e miserie della vita. Secondo lo Yoga la nostra anima è parte dell’Assoluto e quindi non soggetta alle limitazioni della manifestazione, ma a causa dell’identificazione con i suoi corpi, essa si trova così a perdere coscienza della sua vera natura e quindi invischiata nella sua stessa creazione. Fino a quando il velo dell’Asmita (ego, il senso dell’io) nasconde la sua vera natura, essa resterà legata dalle limitazioni e dalle illusioni della vita, e l’unico modo in cui potrà riguadagnare la propria libertà sarà quello di rimuovere tale velo. L’Ishvara Pranidhana è uno dei mezzi che lo Yoga ci fornisce per rimuovere il velo dell’ignoranza. Esso ha lo scopo di dissolvere l’Asmita mediante la fusione sistematica e progressiva della volontà individuale con la volontà di Ishvara, il Signore Supremo. La fede in questo contesto rappresenta la forza motrice che aziona la volontà e l’aspirazione, e con l’aspirazione raggiungiamo, attraverso un giusto travaglio di purificazione, di comprensione, di compassione e di amore, la percezione della realtà dell’Atman Pranidhana, o Assolunto, a cui veramente ci dobbiamo consacrare. Gli Yama e i Niyama rappresentano una condotta di vita in cui la legge dell’astenersi e dell’osservare sono continuamente correlate e inscindibili. Si può senza dubbio affermare che essi sono delle regole universali, vecchie e precise quanto il mondo, da acquisire come virtù naturali, indispensabili anche al di fuori delle concezioni Yoga, per chiunque desideri veramente vivere nella pienezza delle possibilità umane.