la vertigine del vivere nel romanzo di Luciano Valentini

A un primo impatto il lavoro di Luciano Valentini può sembrare pervaso da un negazionismo lesionista totalizzante univoco, senza speranza senza ritorno, senza via di fuga, una sorta di masochismo dell’anima del profondo. Per di più si origina da una cultura laica anche se sempre fa da sfondo e riferimento una chiesa che incornicia e riferisce e se ne da segnale nello scorrere dell‘opera. Una chiesa di cui come in altri contesti si riconosce il potere nelle sue cerimonie che scandiscono la vita sociale. Nei confronti del potere si vive qui una sosta di sudditanza popolare. Ecco la matrice popolare anzi delle campagne nell’anello intorno alla città di provincia. Un riferimento laico che non fa però a meno nella sua catarsi alchemica della natura immerso. Si è vero, il romanzo nega l’appartenenza alla natura, lo scollamento generazionale di cui il protagonista soffre ampiamente le fragilità. La natura è il riferimento nostalgico onnipresente, il bello che non torna come la giovinezza di un mondo che ormai è lontano nei ricordi, fuggito nelle melanconie. L’epoca delle campagne con le sue descrizioni paesaggistiche ed i suoi sapori sembra ritrovarsi in un attaccamento talvolta morboso al cibo e alla sopravvivenza che gli si delega. In realtà avviene una catarsi alchemica che è invece del tutto naturale. In sostanza l’artista fa una operazione di spurgo ed emersione attraverso la parola, una purificazione da bruco a farfalla si potrebbe semplificare. L’humus che emerge è formato da parole in sofferenza che descrivono stati d’animo frustranti di incapacità ed impossibilità del vivere. Incapacità e solitudine del vivere tipici di gran parte della letteratura moderno contemporanea a cui Valentini si unisce nel filone che scorre. Ma è proprio questa difficoltà del partorire se stessi che fa trovare forza per far volare la farfalla, che fa emergere lo stelo del futuro fiore dalla buia terra. La forza della spinta nel buio della sofferenza trova la vita. Questa emersione di negatività porta in se il seme della bellezza depositato nell’oscurità nel silenzio profondo. Questo seme della bellezza aspetta il momento della nascita, il momento dell’ascesa inevitabile verso la luce di cui il concime stresso, la terra stessa con le sue sostanze alimentano. Non potrà non partorire che se stesso e rinascere perché l’uomo non è centro ma parte del tutto. L’energia umana non viene da lui ma in lui circola di vita. L’immolazione cristica del crocefiggersi è utile ad innalzarsi. Per concepire questa scrittura apparentemente semplice ma in verità anche molto complessa, bisogna quindi appoggiarsi ad una metafora naturale. Il rapporto tra luce ed oscurità, cioè tra luce ed assenza di luce si direbbe oggi, è concezione e comprensione della realtà. Senza tener conto del doppio che forma l’unione, siamo fuori del vero. Ecco che questo linguaggio denso e immerso in questo provincialismo fatto di piccoli gesti rituali quotidiani, di passato che spinge avanti, di sofferta solitudine, che costringe a rapporti impossibili, è motore per un lavorio interiore di osservazione maniacale e pervadente. L’artista non può fare a meno di osservare fuori da lui è una forma di possibile autodifesa dal mondo da cui non si lascia possedere ma che invece entra comunque. L’iperosservazione è come un vizio una malia quotidiana. Il mondo sociale entra e scava anche se c’è un disgusto che non approva, che ascenderebbe ad una simbolica illusiva perfezione. Una contraddizione che non ama risolversi: se da un lato la lentezza è segno di mancanza di stress dal dinamicismo ossessivo del frenetico sociale, da un altro è anche una devastante pigrizia che coccola e scalda con i suoi veleni soffusi ed ovattati. La consapevolezza profonda di essere il brutto anatroccolo è totale e fa partire da un lato svantaggiato e dall’altro cerca il riscatto nell’uso dell’arma poetica come difesa suprema. Con la poesia il brutto anatroccolo divenuto adulto, rivendica il suo spazio sociale e può camminare a testa alta. Dice: si sono apparentemente fragile e mi concedo, ma sono anche forte perché l’arte poetica è in me. La dichiarazione di scegliere di essere poeta diviene possibile soluzione: sono così lo scelgo o lo sono? Quale mistero si cela dietro una scelta potremmo dire usando una parola diffusa ma di altra cultura: Karma. Karma o destino? Sarebbe interessante vederne le connessioni. Lasciamo aperta la domanda intanto che Luciano Valentini continua ad annaffiare il suo giardino poetico per farne emergere altri fiori colorati in primavera che verrà. https://www.amazon.com.au/vertigine-Luciano-Valentini/dp/8875766517