la nascita dello yoga

Patañjali è considerato uno dei padri dello Yoga. Lo yoga è nato prima di lui, ma lui in qualche maniera ne è stato lo scopritore e fondatore. Secondo la leggenda, un giorno Viṣṇu, custode e protettore della creazione, stava seduto su Ādiśeṣa, “re dei Naga”(mitiche creature metà umane e metà serpenti). Viṣṇu stava guardando l’affascinante danza di Shiva e ne rimase talmente scosso che cominciò a tenerne il ritmo, il suo corpo iniziò a vibrare e a martellare pesantemente su Ādiśeṣa, al quale quasi mancò il respiro. Quando la danza terminò, subito il corpo di Viṣṇu tornò leggero. Ādiśeṣa chiese a Visnu cosa fosse successo e questi rispose che la grazia, la bellezza e la potenza della danza di Shiva avevano creato delle corrispondenti vibrazioni sul suo corpo. Il re dei Naga rimase così affasciato dalla danza del Nataraja (così viene chiamato Shiva: Nataraja, re della danza) che lo implorò di insegnargliela in modo da poterla ballare per la gioia di Viṣṇu. Colpito dalla richiesta, Viṣṇu predisse che Shiva, per la devozione e compassione mostrata da Ādiśeṣa, lo avrebbe fatto incarnare in un essere umano cosicché egli potesse offrire gioia all’umanità e soddisfare il suo desiderio di danzare. Fu così che Ādiśeṣa, deciso ad insegnare lo Yoga agli uomini, una volta istruito ai passi e ai gesti della danza di Shiva, si incarnò nel ventre di una donna sterile, ragion per cui venne chiamato Patañjali, da añjali, che significa “offerta”, “benedizione”, e pāta, “caduta dall’alto”. Nella realtà storica Patañjali era un uomo realmente esistito, nato nell’attuale Sri Lanka, a Thiru-Gona-Malai, qualche secolo prima di Cristo. Era un danzatore, paragonato ad un serpente per la morbidezza del gesto e la flessibilità del corpo, un esperto di Ayurveda (l’Arte vedica della medicina). E soprattutto era uno dei Siddha del Tamil, il gruppo di ricercatori che nella foresta di Chidambaram, nel sud degli India, crearono l’Arte chiamata Natya Yoga, dalla quale derivano le discipline chiamate oggi Hathayoga e Bharatanayam (danza classica del sud dell’India). Le gesta dei primi Siddha sono raccontate in un testo tantrico, mai tradotto in italiano, il Tirumantiram di Tirumular (un altro dei Siddha dei Tamil). Il Tirumantiram contiene tra l’altro la parte pratica degli insegnamenti che Patañjali ci ha trasmesso con il suo testo più famoso, gli “Yoga Sutra”. L’opera di Patañjali consiste in 196 sûtra (in prima approssimazione potremmo tradurre questa parola con «aforismi» o «versi») che descrivono con magistrale chiarezza e incredibile capacità di sintesi la filosofia Yoga. In realtà la parola sûtra significa «legame», «sequenza» o «catena» e indica come tutta l’opera sia un susseguirsi ininterrotto di idee che si incastrano perfettamente come i grani di una mala fino a formare un unico concetto che percorre in filigrana tutto il testo. INTERPRETAZIONE DEI TESTI TRADIZIONALI Swami Satyananda Saraswati nell’introduzione al suo commento agli Yogasûtra di Patañjali narra un aneddoto molto significativo che chiarisce come si dovrebbe interpretare una tale opera. Un giorno due pandit (eruditi) entrarono in un ashram per partecipare ad un satsang e, essendo stati i primi a giungere, presero posto direttamente dinanzi al guru. Inizialmente il satsang riguardò gli âsana, il prânâyâma e altre pratiche di Yoga, ma dopo un certo tempo i due pandit si rivolsero al guru spiegando di essere venuti da molto lontano per discutere di argomenti più importanti, in particolare delle implicazioni filosofiche del samâdhi secondo Patañjali. Uno dei due pandit sosteneva la totale uguaglianza tra il nirbîja-samâdhi e il asamprajnâta-samâdhi, mentre l’altro ne proclamava con convinzione la diversità. In breve tempo il dibattito si fece molto acceso e il tono dei due si alzò pericolosamente, mentre il guru, non avendo la possibilità di intervenire, sedeva in silenzio. Nel frattempo una grossa mucca, ballonzolando attraverso il prato, si portò proprio dietro ai due uomini e si accovacciò placidamente, come se volesse prendere parte anch’essa al diverbio, e mentre tutti gli altri si mostrarono molto sorpresi dinanzi a questo spettacolo, i pandit, presi com’erano dalle proprie argomentazioni, non se ne accorsero nemmeno. La mucca dal canto suo sembrava vivamente interessata alle parole degli uomini, che pareva ascoltare con grande attenzione, finché improvvisamente si decise e muggì con veemenza la sua approvazione. I due litiganti balzarono in piedi spaventatissimi, a corto di parole per la prima volta dall’inizio del giorno e, tra il divertimento generale, videro la mucca che lentamente si alzava e si allontanava, probabilmente in cerca di un altro satsang da qualche altra parte. Quella saggia mucca mostrò a tutti che gli Yogasûtra di Patañjali non furono concepiti e scritti per essere dibattuti intellettualmente, bensì per spiegare il processo e mostrare alcune tecniche per elevare la propria consapevolezza, esplorare le potenzialità della propria mente fino ad arrivare a trascenderla. E’ un testo pratico e sicuramente lo stesso Patañjali avrebbe trovato appropriato il commento della mucca. Un libro “sacro”, nel senso di “tradizionale”, come gli Yoga Sutra, non va solo letto: va “praticato“. La tecnica di interpretazione del testo tradizionale si basa su cinque strumenti fondamentali: śravaṇa (ascolto), manana (meditazione nel senso di comprensione letterale, riflessione, concentrazione sui simboli e le immagini in determinate posizioni e con determinati gesti), nididhyasanam (letteralmente “sedersi a guardare il tesoro”, la meditazione vera e propria in una delle posizioni consigliate dallo Yoga: Padmasana o posizione del loto, Ardha Padmasana o mezzo loto, Siddhasana o posizione perfetta…), samadhi o “Estasi” o “Contemplazione”, che si può intendere come lo stato in cui “la mente riposa in se stessa” e si è in unione col “vero sé”, con l’Universo o con l’Essere Supremo (chiamato in sanscrito Brahman). Questa scrittura è anche chiamata Yoga Darshana che è spesso tradotto con «filosofia Yoga» anche se in realtà la parola darshana ha un significato molto più profondo: letteralmente significa «vedere», quindi Yoga Darshana significa «il processo di vedere attraverso lo Yoga», ma si tratta di una vista preclusa agli occhi o ad ogni altro senso; è un vedere l’invisibile che si cela dietro la comune percezione. Il testo è diviso in quattro sezioni: Samâdhi Pada (51 sûtra): viene analizzata la natura generale dello Yoga e poiché la tecnica essenziale è il Samâdhi, quest’ultimo viene trattato approfonditamente tanto da attribuire il nome alla prima sezione. Sâdhana Pada (55 sûtra): contiene la teoria dei klesa ed un’analisi magistrale della sofferenza che la vita umana comporta ed affronta le prime cinque tecniche Yoga cui si fa riferimento come bahiranga, ovverosia esteriori. Scopo di questa sezione è quindi preparare fisicamente e mentalmente il sâdhaka alla pratica dello Yoga superiore. Vibhuti Pada (56 sûtra): tratta le tre rimanenti tecniche (antaranga, cioè interiori) e le siddhi cui queste naturalmente portano. Kaivalya Pada (34 sûtra): vengono esposti i problemi filosofici essenziali che lo studio e la pratica dello Yoga comportano. Lo yoga di Patañjali è spesso chiamato ashtanga Yoga, ovvero lo «Yoga degli otto stadi»; infatti anche se l’autore offre un’ampia varietà di tecniche per armonizzare la mente e il corpo, il percorso principale si articola in otto stadi fondamentali.I primi cinque sono: yama (armonizzazione delle relazioni interpersonali); niyama (armonizzazione delle sensazioni interiori); âsana (bilanciamento degli impulsi nervosi opposti); prânâyâma (concentrazione di tutta l’energia pranica); pratyâhâra (raccoglimento ed eliminazione di tutte le distrazioni esterne alla persona); Questi sono le cosiddette pratiche esterne, o bahiranga, che gradualmente preparano il corpo e la mente per gli ultimi tre stadi: dhâranâ (concentrazione della mente in un unico punto e soppressione della confusione mentale utilizzando un simbolo psichico come centro focale); dhyâna (meditazione; la consapevolezza scorre senza sforzo intorno al simbolo psichico); samâdhi (uno stato in cui vi è completa assenza di qualsiasi modificazione mentale; tutto ciò che rimane è consapevolezza).