L’apocalisse della plastica

L’apocalisse della plastica
La plastica ha invaso il mondo. Nel 1997 è stata scoperta la prima, immensa, gigantesca isola di spazzatura galleggiante del mondo. Si trova nel Pacifico e misura oltre dieci milioni di metri quadrati. La sua estensione va dalle coste della California fino a quelle cinesi. Stiamo parlando di un grande, immenso continente in movimento sospinto dal North Pacific Gyre – il vortice del Nord Pacifico -, frutto della concatenazione di quattro correnti fondamentali: la corrente di Kuroshio, la corrente del Nord Pacifico, la corrente della California e quella nord equatoriale. Ha una massa di circa 3 milioni e mezzo di tonnellate, più che raddoppiata in soli cinque anni! Ha uno spessore medio di 10 metri ed è composta per oltre l’80% da plastica, per la precisione l‘86,2%. Poi c’è un 3,8% di gomma, un 2,9% di carta e cartone, un 1,4% di tessuti, mentre metalli vari e vetro ammontano rispettivamente allo 0,8% e allo 0,1%. Il resto, circa il 4,9%, sono schiume. E’ come un minestrone, una zuppa con una densità che varia da 20mila a oltre 200mila frammenti per chilometro quadrato. I campionamenti diretti hanno stabilito che l’acqua ha una concentrazione di plastiche fino a sei volte superiore a quella del plancton e non c’è modo, nessuna possibilità di rimediare: ripulire gli oceani dalla plastica è un’operazione che trascende il budget di qualsiasi stato, paese o Non esiste solo la grande isola di rifiuti dell’Oceano Pacifico. Recentemente la Sea Education Association ne ha appena scoperta una anche nell’Oceano Atlantico dove, in un’area che corrisponde all’incirca al Mar dei Sargassi, tra il 1986 e il 2008 sono stati raccolti, grazie ad un particolare tipo di pesca a strascico a maglie fini, circa 64mila pezzetti di plastica che misurano mediamente meno di un centimetro e pesano meno di 0,15 grammi. Le dimensioni globali della nuova isola galleggiante non sono ancora chiare, ma è molto probabile che siano simili a quelle della sua gemella del Pacifico, così come appare evidente che ce ne possano essere molte altre, in giro per il mondo.

Possibili candidati sono un’area in prossimità del Cile ed una seconda zona tra il Sud Africa e l’Argentina. Il problema è che le scie di spazzatura sono traslucide, per cui non sono visibili dal satellite e possono solo essere scoperte mediante la navigazione ravvicinata. La plastica arriva solo per il 20% dalle navi e dalle piattaforme petrolifere. L’80% proviene direttamente dalla terraferma, dove ogni anno ne produciamo oltre 250 milioni di tonnellate. Solo negli Stati Uniti, sui voli di linea delle compagnie aeree, ogni giorno vengono utilizzati oltre 4 milioni di bicchierini di plastica. Nessuno di questi è riutilizzato o riciclato. Numeri che, nonostante tutto, scompaiono di fronte a quello dei bicchierini di carta che, sempre nella sola area degli Stati Uniti, vengono distribuiti per le bibite calde, principalmente caffè: 40 milioni ogni 24 ore.

Come ci arrivano in mare? Perlopiù la colpa è nostra, che gettiamo bottigliette e tappi per strada, i quali vengono lavati via dalla pioggia e finiscono prima o poi in un tombino. Da lì si incanalano negli scarichi fognari, che a loro volta spurgano nei fiumi, e non ci vuole Sherlock Holmes per immaginare che fine fanno. Solo una percentuale inferiore al 5% di plastica, in tutto il mondo, viene riciclata. Di seguito il grafico che mette in relazione i tassi di produzione e di riciclo di plastica negli Stati Uniti dal 1960 al 2007. Il riciclo della plastica è molto difficoltoso, innanzitutto per l’incapacità congenita dell’essere umano a preoccuparsi per l’ambiente che lo sostiene, e quindi a provvedere ad una corretta raccolta differenziata – non a caso siamo le sole creature animali che producono rifiuti inorganici che non vengono smaltiti dall’ecosistema -, ma anche per le oggettive difficoltà di trattamento. La plastica non si può recuperare con il normale trattamento di fusione, come avviene per il vetro e per l’acciaio. L’alluminio fonde a 660,32 gradi centigradi, il vetro a circa 1000/1500 gradi, l’acciaio più o meno a 1500°/1600°. Alcune plastiche invece iniziano a sciogliersi sotto alla temperatura di ebollizione dell’acqua, già a 98°, altre a 250°. Inoltre non si separano dai contaminanti oleosi, per i quali al contrario agiscono come una spugna. Per di più ci sono plastiche che, se riscaldate, bruciano direttamente.

A completare il quadretto idilliaco, il corpo delle bottigliette di acqua è composto da PoliEtilenTereftalato (PET) che, tra le altre cose, nell’acqua affonda, mentre i tappi sono prodotti in stabilimenti diversi, a partire da plastiche diverse come il polipropilene, fondono circa a 165° e se immersi nell’acqua galleggiano. Curiosamente, non sono coperti dai cosiddetti Bottles Bills, ovvero il deposito previsto dalle leggi americane che viene corrisposto al momento dell’acquisto di un contenitore e che viene restituito quando il contenitore stesso viene riportato dall’utilizzatore a un centro di smaltimento autorizzato. Ciò significa che non interessa a nessuno dare una mano per riciclare i tappi, che non a caso sono una delle principali sorgenti di materiali inquinanti che invadono i mari e le coste. Ogni cinque minuti, gli Stati Uniti d’America consumano una media di due milioni di bottigliette di plastica, con i loro due milioni di tappi satelliti, ovvero 576 milioni di unità al giorno, cioè oltre 210 miliardi di bottigliette all’anno, molte delle quali vanno ad alimentare le isole di plastica che stanno lentamente divorando i nostri mari. Quali sono le conseguenze di questo disastro ambientale sulla vita? Le più evidenti sono i danni diretti, per ingestione, per soffocamento o per altre curiose interazioni con delfini, tartarughe e altri grandi animali che vengono a contatto con le parti meno appariscenti ma potenzialmente letali di una bottiglietta di plastica, come per esempio l’anello che blocca in posizione il tappo. Tuttavia, questo è il meno.

La plastica, nel tempo, si frammenta, dando luogo ad un vero e proprio minestrone che resta in sospensione per migliaia di anni. Un tempo la sabbia delle spiagge si formava grazie alla frammentazione di rocce e coralli: oggi iniziamo già ad avere le prima spiagge di plastica. Inoltre, centinaia di campionamenti su piccoli pesci, pescati in un’area grande il doppio del Texas, circa dieci miglia al largo delle coste americane, hanno mostrato come oltre un terzo del pescato avesse plastica nello stomaco. Il record appartiene ad un pesciolino lungo appena 6,4 cm, che aveva nella pancia ben 84 piccoli pezzetti di plastica. Ma cosa succede quando la plastica arriva a triturarsi fino a diventare polvere? Succede che viene ingerita da moltissimi organismi marini filtratori, che ingurgitano pericolosi composti, come i policlorobifenili, introducendoli di fatto nella catena alimentare. Ecco come una bottiglietta gettata via senza criterio può ripresentarsi sulle nostre tavole e, silenziosamente, condannarci a morte. Tornare indietro non si può. Gli oceani sono spacciati perché non esiste alcun modo di ripulirli, né economicamente né praticamente, ovvero senza dare il colpo di grazia alle specie marine che ancora li popolano. La sola cosa da fare è cerare di limitare i danni facendo molta, molta attenzione a dove gettiamo via la plastica già in circolazione. E, possibilmente, evitando di produrne di nuova.