l’Arte umana espressione divina

“L’arte mette in contatto con Dio che crea attraverso l’uomo, che con le opere sperimenta frammenti di creazione, l’Arte è così espressione diretta di Dio stesso”(Lam)                                                                                               “L’arte è la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l’oggetto e il soggetto”(Charles Baudelaire)                                                     MILANO – “A cosa serve l’arte? Probabilmente pensate che non ci sia una risposta a questa domanda”. Così prende le mosse una studio (concretizzatosi poi in un video pubblicato sul sito dell’Internazionale) dello scrittore svizzero Alain De Botton. Presentatore televisivo, imprenditore culturale e saggista, De Botton si occupa di cultura e storia del pensiero in uno stile filosofico che ne sottolinea il valore per la vita quotidiana delle persone. Dal 2008 De Botton ha fondato a Londra la School of life, “un istituto che cerca di dare alla gente quello che secondo me le università dovrebbero sempre dare: un senso di orientamento e saggezza per la vita con l’aiuto della cultura”. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è “L’arte come terapia. The school of life”. A COSA SERVE L’ARTE? – Domanda non banale dunque, che richiede una risposta il più possibile precisa e semplice. Quasi sempre, alla questione, seguono lunghi silenzi imbarazzati e tanta confusione e nemmeno i critici d’arte più esperti e navigati riescono a darci una risposta univoca e convincente. Eppure possiamo individuare la funzione della maggior parte delle cose che ci circondano. I musei sono spesso affollati, così come le gallerie d’arte. Basti pensare che nel 2012 il Louvre ha registrato circa 10 milioni di visitatori durante l’anno, e i numeri sono in costante crescita. Com’è possibile allora che non ci sia una risposta sulla funzione dell’arte? PERCHÉ L’ARTE MIGLIORA LA VITA – Eppure non è così, poiché possiamo provare a descrivere alcuni scopi evidenti dell’arte. Eccone cinque. 1. L’arte ci rende ottimisti – Fatto tanto ovvio, quanto sorprendente. Le opere più famose ritraggono tutte soggetti “belli”: persone felici, cieli blu, fiori. A riprova di ciò, la cartolina più venduta al mondo è una riproduzione delle celebri “Ninfee” di Monet, del Metropolitan Museum di New York. Si potrebbe obiettare che, tutto questo entusiasmo per la bellezza, ci si dimentichi di cosa sia la vita vera: tutti i giorno sotto ai nostri occhi sfilano immagini di guerra, fame e di altre calamità che affliggono il mondo. Ma questa obiezione può, in questo contesto, apparire inappropriata, poiché abbiamo bisogno del contatto con le cose belle proprio perché siamo gravati dai problemi che rischiano di farci cadere nella depressione o tristezza. È per questo che la bellezza è importante. È un emblema di speranza. I fiori, i cieli blu, i bambini nei prati, sono simboli pura speranza imbottigliata e conservata, pronta a essere consumata quando ne abbiamo bisogno. 2. L’arte ci rende meno soli – Spesso il mondo ci chiede di indossare una maschera allegra, ma sotto la superficie c’è una tristezza che non possiamo manifestare, per non sembrare strani o deboli. L’arte può ricordar4ci la normalità del dolore. Essa può essere triste con noi e per noi. Alcuni dei grandi capolavori mondiali hanno la capacità di rendere visibili a tutti il dolore che c’è dentro di noi. La musica triste e i quadri tetri non devono necessariamente deprimerci. Al contrario, possono regalarci la piacevole consapevolezza che il dolore fa parte della condizione umana. L’arte combatte l’ottimismo forzato della società dei consumi. Esiste per ricordarci con dignità che ogni vita comprende sofferenza, angoscia, solitudine e confusione. 3. L’arte ci dà equilibrio – Siamo tutti squilibrati, in un certo senso. Siamo troppo intellettuali o troppo emotivi, troppo mascolini o troppo femminili, troppo calmi o troppo irrequieti. L’arte che amiamo spesso ci attrae perché ci dà quello che ci manca, controbilancia quello che siamo. Quando siamo commossi da un’opera d’arte forse è perché contiene dosi concentrate di qualità di cui abbiamo bisogno nella nostra vita. Forse è piena della serenità che ammiriamo ma che non possediamo a sufficienza. Forse ha quella tenerezza a cui aneliamo e che non troviamo nelle nostre relazioni. O forse contiene il dolore e le emozioni represse con cui vogliamo entrare in contatto. A volte un’intera società si innamora di uno stile d’arte perché sta tentando di riequilibrarsi, come nella Francia di fine XVIII secolo che aveva bisogno di David come correttivo della sua decadenza. O come nel Regno Unito del XIX secolo, che ammirava i preraffaelliti per contrastare la brutalità dell’industrializzazione. L’arte che una persona o un paese considerano bella ci fa capire cosa manca a quella persona o a quel paese. L’arte ha il potere di renderci più completi, equilibrati e sani. 4. L’arte ci aiuta ad apprezzare le cose – I media ci suggeriscono costantemente cosa è affascinante e importante. L’arte fa lo stesso, ma fortunatamente (dato che non siete invitato agli Oscar nemmeno quest’anno) di solito si concentra su aspetti diversi. Van Gogh ci ricorda che le arance meritano la nostra attenzione. Marcel Duchamp ci sfida a guardare oggetti comuni in un’altra ottica. E così molti altri. Questi artisti non cercano di far apparire interessanti oggetti che non lo sono, al contrario, ne evidenziano il valore di solito ignorato da un mondo che attribuisce importanza alle cose in modo distorto e ingiusto. L’arte riporta il fascino al posto giusto, sottolineando ciò che davvero merita il nostro apprezzamento. 5. L’arte è propaganda per le cose davvero importanti – L’arte sembra estremamente dalla propaganda e dal tentativo di convincere le persone a combattere o a votare per un partito. Ma in un certo senso è una forma di propaganda, perché è uno strumento capace di coinvolgerci in una causa. È una propaganda per conto di alcune tra le più importanti e profonde emozioni umane, che l’arte è capace di rendere attraenti e accessibili. Propaganda della vita semplice, della necessità di ampliare i propri orizzonti, o di un approccio più gioioso alla vita. L’arte è una forza che sostiene il lato migliore della natura umana, rafforzandolo e mettendolo in evidenza in un mondo sempre più distratto e rumoroso. IN CONCLUSIONE – L’arte è una fonte costante di sostegno e incoraggiamento per migliorare noi stessi.          L’ARTE PUÒ AIUTARE A ESORCIZZARE LE FOBIE DELL’UOMO?  Se nelle teorie scientifiche tardo ottocentesche di Ernst Wilhelm von Brücke, derivanti dalle osservazioni dell’ottica di Hermann von Helmholtz, l’arte era definita principalmente come un’espressione retinica, è grazie alle moderne tecnologie di neuroimaging che possiamo riferirci a un’espressione non più retinica ma cerebrale dell’arte. Filosofi, artisti e scienziati si interrogano, oggi come allora, sulla sua capacità di influenzare in maniera diretta i pensieri e le aspirazioni umane, attraverso un’attivazione progressiva e spontanea delle aree cerebrali fino a giungere a una comprensione globale che si fonda sulle qualità mnesiche e la cifra culturale di chi fruisce il bene artistico. Una vera e propria metamorfosi cognitiva dalla Vorstellung ovvero la semplice immagine di ciò che è, alla Einstellung, il ragionamento articolato sui possibili significati suggeriti dall’opera d’arte. Affronteremo, in questo articolo, il viaggio a ritroso nell’ontologia della genesi del pensiero umano, basandoci sulla Neuroestetica o neurobiologia dell’estetica, per dare una chiave di lettura agli attuali contesti socio-culturali, prendendo a modello le opere di una delle star dell’arte contemporanea. LO SQUALO DI DAMIEN HIRST – Avete mai considerato l’idea di trovarvi faccia a faccia con uno squalo di “appena” sei metri? Per immergersi in questa esperienza tachicardica, non occorre nuotare affannosamente nelle gelide acque dell’oceano atlantico ma basterebbe solo ritrovarsi nella sala di un museo, al cospetto di una delle opere di Damien Hirst. Parliamo del famoso squalo da 12 milioni di dollari, una delle espressioni artistiche più controverse e costose del XXI secolo: The physical impossibility of death in the mind of someone living (L’impossibilità materiale della morte nella mente di un essere vivente). Un esercizio artistico di stile che penetra la mente dell’osservatore attraverso una pluralità di varchi dimensionali, catalizzatori situazionali di insondati domini psichici, che, in una continua metabolizzazione del punto di vista, auspicano la trascendenza dalla materia biologica, non per mezzo della sua negazione bensì attraversando consapevolmente le sabbie mobili delle emozioni legate alle paure ancestrali della morte. L’artista in questo contesto assurge al ruolo di moderno ierofante, che, attraverso i mezzi espressivi suggeriti dalle sue opere, fornisce allo spettatore i dispositivi mistagogici per affrontare le ansie e le paure della vita. Nello squalo di Hirst, il primo di questi è rappresentato dalla trasformazione alchemico-concettuale del titolo dell’opera, che, in una trasposizione semantica alla Gombrich, vuole rappresentare una sorta di “istruzione all’uso” dell’opera da parte dello spettatore. L’artista nel concepire questo lavoro, frutto dell’intersecazione tra un’operazione tassidermica, al limite del ready made, e una speculazione concettuale metalinguistica, non nega l’influsso che sulla sua psiche ha avuto il famoso film spielberghiano Jaws (tradotto in italiano con Lo squalo), una memorabile pellicola che si è indelebilmente impressa nelle menti degli spettatori in tutto il mondo. Il trovarsi faccia a faccia con un predatore preistorico come lo squalo, un animale che, dalle parole dello stesso Hirst, “sembra morto quando è vivo e vivo quando è morto”, allude alla totale impotenza dell’uomo di fronte alle forze della natura, in una evocazione diretta della paura ancestrale di soccombere a esse, con il conseguente corteo di manifestazioni neurofisiologiche a carico della cosiddetta area o memoria di lavoro cerebrale anatomicamente costituita dal giro cingolato, dai nuclei della base, dall’ipotalamo e dall’amigdala. LA QUESTIONE DELL’ENIGMA PERCETTIVO – Le opere d’arte che creano un cortocircuito cerebrale, tra ciò che viene visto e il significato che l’artista attribuisce a esso, danno vita a una ben precisa condizione neuroestetica definita dal famoso scienziato Vilayanur Ramachandran enigma percettivo, condizione che mette a dura prova la memoria di lavoro. La conseguenza di ciò è una maggiore stimolazione dei recettori delle aree neuronali, situate nei lobi prefrontali, deputate alla gestione dei pensieri creativi e al controllo cosciente della memoria, strutturandola in immagini mentali che nel caso dello squalo di Hirst veicolano le idee di orrore e angoscia. Ma come è possibile che, dall’alto del progresso tecnologico e della complessità dell’evoluzione culturale, il nostro cervello subisca inerme lo scacco matto delle emozioni? Per cercare di dare una spiegazione occorre riferirci a un altro concetto neurocognitivo, quello di neotenia, ossia il permanere di caratteristiche giovanili in età adulta. A differenza delle altre specie, i cuccioli di uomo, infatti, imparano molto tardi a compiere delle azioni elementari come il camminare o il coordinare i movimenti degli arti e organizzare il linguaggio. Una situazione drammatica questa, se fossimo nati in una foresta o nelle profondità oceaniche, con l’alta probabilità di incontrare precocemente dei predatori. Un cervello che matura tardi dà però la possibilità di essere più lungamente plasmato dall’esperienza, accumulando una notevole mole di dati per un tempo maggiore. Sono questi dati che, ripresi in età adulta, permettono di creare mondi finzionali, idee o soluzioni innovative ai problemi della vita. Paghiamo la nostra intelligenza creativa con il prezzo di avere un cervello maggiormente sensibile e “impressionabile”, proprio come una pellicola fotografica, per alcuni decenni dopo la nascita o, come affermano alcuni autori, addirittura per tutta la vita. Dal punto di vista anatomico questa condizione si manifesta con la cosiddetta plasticità neuronale. Ciò significa che le terminazioni nervose di ogni singola cellula del nostro cervello sono in una condizione di rimaneggiamento continuo, in maniera direttamente proporzionale a quel che impariamo e agli stimoli che riceviamo dal mondo esterno attraverso le meccaniche del nostro corpo (embodiment). Ogni variazione di questi pattern neurali si ripercuote sull’intera impalcatura cerebrale come in un continuo gioco tensegritivo tra strutture rigide (memorie archetipali) ed elementi elastici (nuove informazioni). LA PAURA DELLA MORTE – Questa mirabile macchina di raffinata intelligenza si viene a inceppare nel momento in cui i nostri occhi, o più in generale il nostro corpo, sperimentano quella condizione di profonda angoscia e terrore atavico generata dalla paura della morte, sia al cospetto dei denti aguzzi di un grande squalo, conservato in una teca all’interno di una galleria d’arte, che nella ricostruzione mentale di una infinitamente piccola entità virale. L’algoritmo di ragionamento simbolico è il medesimo che, attraverso un processo di significazione e il conseguente atteggiamento interpretativo, può influire in maniera drammatica sui nostri pensieri e le nostre azioni. Sotto l’influsso delle sostanze neuroattive, originate dalla situazione di stress, i più alti ideali, frutto delle nostre faticose conquiste evolutive e culturali, che si materializzano, tra le altre, nella cooperazione e condivisione interpersonale e nella contemplazione kantiana del piacere estetico incondizionato, vengono a ridursi a una sottodimensione del vivere, funzionale alla mera sopravvivenza biologica del corpo. La cooperazione lascia così il posto alla competizione, la contemplazione a un riduzionismo visivo fatto di un rapido susseguirsi di immagini naïve, dai grossolani cromatismi e un cono di visuale sempre più ristretto, fosco preludio a una altrettanta limitatezza dell’elaborazione del pensiero cosciente. Un antidoto a questo scivolamento involutivo è rappresentato dall’arte che, fin dalle prime espressioni del memento mori, ha voluto ricordare all’uomo l’ineluttabile caducità della vita. Artisti contemporanei come Damien Hirst hanno saputo integrare nelle loro opere questi concetti. Oltre all’aggressività dello squalo ne è un esempio un altro lavoro di Hirst, Standing Alone on the Precipice and Overlooking the Arctic Wastelands of Pure Terror (1999-2000) dove i ripiani che ospitano pillole e compresse rivestono letteralmente tutte le pareti della sala nella quale l’opera è allestita, in una sorta di metafora visiva che, concettualizzando la dualità antitetica vita-morte, attribuisce un ruolo apotropaico al rituale dell’assunzione medicamentosa. Una dimostrazione di come nella civiltà moderna la morte non è considerata più come evento naturale della fine della vita ma incidente di percorso, una lacerazione nello stroma del continuum temporale su cui poggia il corpo biologico, per rimediare alla quale rovistiamo continuamente nella cassetta degli attrezzi della scienza medica, con l’obiettivo di trovare un qualche antidoto alla grande mietitrice. Un’azione destinata al fallimento e per questo fonte di ansia e stress. Così le nostre vite, slegate da una organicità biologica e sociale (mors tua vita mea), diventano semplici prodotti di scambio per beni e servizi e come tali con una data di scadenza. ARTE VS STRESS – Con le loro opere artisti come Hirst stimolano lo spettatore a superare i meri confini della corporeità edonistica, invitando a elevare la coscienza verso i grandi interrogativi dell’umanità. Durante questa partecipazione esperienziale, i sentimenti di orrore, ripugnanza e terrore svolgono un ruolo catartico, incenerendo le loro interferenze emozionali nella genesi del pensiero cosciente. Per questo gli animali senza vita, oggetto delle altre opere di Hirst, si presentano dissezionati ma, se visti da altre angolazioni, appaiono conservare artificialmente la loro vis vitalis. Nelle mani dell’artista, i corpi diventano un giocattolo smontabile che, una volta perso il tegumento esterno, rivela i contenuti meccanici alla base dello stare al mondo. Queste opere vivono una sorta di simmetrica ambiguità, una lettura doppia nella quale gli effetti nella mente di chi osserva sono simultaneamente antitetici. Abbiamo tutti noi sperimentato una parte di queste condizioni dovute alla pandemia da Covid-19 che, come uno tsunami improvviso, ha travolto inesorabilmente le nostre vite proiettando ombre inquietanti sul futuro. Una crisi inattesa che ha influenzato anche il mondo dell’arte e le capacità creative ed espressive degli artisti. È degno di nota però come la parola crisi contenga in nuce l’idea di rinnovamento. Per esempio l’ideogramma cinese weiji, che rappresenta la parola crisi, è costituito da due simboli, uno che significa “pericolo” e l’altro “occasione/opportunità”. Se è evidente che la crisi diviene un sinonimo di rigenerazione, passaggio obbligato per mettere in dubbio le certezze, è anche vero che essa dà la possibilità di scoprire nuovi processi e inaspettate risorse. Uno sguardo sulla contemporaneità dell’arte attraverso le lenti focali della neuroestetica ci permette quindi, anche in tempi infausti, di comprendere le meccaniche neuronali alla base dello stress, condizione che può contribuire a restituire all’arte e alla creatività il loro ruolo elettivo, nel promuovere la genesi di una visione alta del senso della vita piuttosto che vederla diluirsi in una improduttiva ansia perenne. (Angela Savino & Ottavio De Clemente)                 L’ARTE AIUTA A COMPRENDERE IL MONDO. Abolirla dalle scuole è un danno irreparabile – A scuola non si parla più di bellezza. Non si insegna ai ragazzi l’estetica, il bello, il disegno artistico, la cultura dell’arte. La storia dell’arte è una materia di serie B. A cui dedicare i ritagli di tempo, se mai avanza qualche ora la settimana. Una gioia per gli studenti, che così hanno una materia in meno da studiare. Un peccato per la loro crescita, privata di una materia che è molto di più di semplici nozioni, nomi, date da apprendere e ricordare. È una vera e propria palestra per la vita. Ovvero, storia di come una materia fondamentale è stata cancellata dall’oggi al domani. Viviamo in un paese dove l’arte è presente ovunque. Abbiamo dato i natali agli artisti più famosi del mondo. Che ci hanno regalato opere d’arte che gli altri paesi ci invidiano. E che sono ospitate in mostre con numeri di visitatori da capogiro. Siamo il bel paese di Raffaello, Michelangelo, Donatello, Leonardo, Caravaggio, Tiziano, solo per citarne qualcuno. E abbiamo abolito la storia dell’arte dalle nostre scuole. Tutto grazie alla riforma Gelmini, prima, e alle conferme che anche i successivi ministri dell’Istruzione e altri colleghi hanno dato sul tema. Non da ultimo il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, che, testuali parole, ha detto: “Anche io abolirei la Storia dell’arte. Al liceo era una pena“. Una battuta, la sua, visto che avrebbe abolito anche la chimica, come precisa in un intervento su Facebook. Ma che fa discutere. Parole che si aggiungono a quelle di un massimo esperto, Vittorio Sgarbi, che però pone l’accento su un altro aspetto fondamentale: Il problema dell’educazione all’arte è un problema di educazione alla sensibilità, al gusto, al rispetto, alla conoscenza, non all’attrazione per l’arte, come uno può averla per la matematica, per la fisica o per l’astronomia. È basilare che noi ci educhiamo al bello. (Vittorio Sgarbi). Piuttosto che abolirla, dunque, perché non ripensare la storia dell’arte in modo tale da far appassionare i giovani studenti? Invece è più facile abolire che riformare. E così, via i libri di arte dai banchi di scuola. Riservando lo studio della materia ai licei artistici, dove in tre ore a settimana i docenti devono ripercorrere tutta la gloriosa storia artistica dell’uomo. Perché studiare storia dell’arte è importante. Ci sono tanti motivi per cui i ragazzi dovrebbero tornare a studiare storia dell’arte. Salvatore Settis, noto storico dell’arte, sosteneva che aiuta a vivere. Mentre per Tomaso Montanari, come sottolineato anche da Sgarbi, allena senso critico e libero giudizio. Nella vita di tutti i giorni, senza perdersi in trattati filosofici, l’arte può aiutarci a conoscere le origini dell’uomo, dal momento che è stata la prima forma di comunicazione. Oltre che ampliare il bagaglio culturale di ognuno di noi. Può aiutarci a capire meglio altre materie studiate a scuola, non solo quelle umanistiche: tutte le discipline scolastiche sono collegate tra loro. E poi, soprattutto in Italia, dovremmo capire che studiare l’arte ci aiuta non solo a conoscere il nostro passato e il nostro presente, ma anche a preservare il nostro futuro, fatto di tutto quelle opere d’arte e quei monumenti che visitatori da tutto il mondo vengono ad ammirare da vicino. E dei quali magari noi nemmeno conosciamo la storia. Siamo un paese a vocazione turistica, ma spesso lo diamo per scontato. Non dimentichiamo che gli artisti spesso sono i primi a percepire i cambiamenti in atto nella società e la direzione che la stessa sta prendendo. Portare l’arte a scuola potrebbe dare ai ragazzi anche gli strumenti per capire il mondo in cui vivono. Infine, ultimo ma non per importanza, ognuno di noi nasce artista. I bambini da piccoli non fanno altro che disegnare. Perché è una forma di espressione e di comunicazione insita nell’essere umano. Non dobbiamo perderla crescendo. E dobbiamo fare in modo che l’arte diventi un processo culturale condiviso, non esclusivo per un élite ristretta, ma allargato. Favorendo inclusione, integrazione, conoscenza, socializzazione. Perché anche questo insegna l’arte. Ad aprirsi al resto dell’umanità, ad altre tipologie espressive, ad altre culture, ad altri modi di guardare quello che ci circonda. Per non rimanere chiusi in noi stessi, perdendoci tanto del mondo. Riportiamo il bello a scuola. Del resto anche la nostra stessa Costituzione, quella che professiamo di difendere a spada tratta quando ci fa comodo, sancisce il diritto all’arte e al bello: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.(Articolo 9 Costituzione Italiana). Siamo la patria dell’arte. In ogni angolo la respiri, la ammiri, la tocchi, la senti, la percepisci. Abbiamo 53 siti Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. Abbiamo 95mila chiese monumentali, 40mila rocche e castelli, 30mila dimore storiche, 4mila giardini, 36mila archivi e biblioteche, 20mila centri storici, 5.600 musei e aree archeologiche, 1.500 conventi. L’arte in Italia è dappertutto. Tranne che nelle aule scolastiche. La bellezza è ovunque. E non è solo fine a se stessa. È uno strumento utile per crescere, per vivere e per capire dove stiamo andando. Non insegniamo ai nostri ragazzi a vivere con i paraocchi.(Patrizia Chimera)