la compassione

“Fino a quando il cerchio della compassione non abbraccerà tutti gli esseri viventi,  l’uomo non troverà pace per se stesso”. Albert Schweitzer (premio Nobel per la Pace)                                                  La compassione è un sentimento che innesca una forte emotività che spinge l’individuo verso l’altro in quanto prova pena della sua condizione o del suo stato e vorrebbe far qualcosa per aiutarlo, anche se non sempre ciò è possibile per mille motivi. Come l’empatia è la capacità di sentire l’altro, così la passione è la capacità di commuoversi per l’altro, entrambi questi sentimenti scaturiscono da persone che hanno una elevata sensibilità verso il prossimo, verso gli animali, verso la natura, verso l’ambiente esterno, e se ne preoccupano, se ne prendono cura e si rendono disponibili sempre nei limiti delle loro possibilità pratiche. La compassione è uno stato mentale che invoca l’altruismo e lo fa agire, lo smuove e lo sprona a cercare di cambiare le condizioni dell’altro che si trova in stato di bisogno o disagio. Proprio per questa sua dedizione positiva si contrappone al desiderio di punizione e di vendetta, che sono anch’essi sentimenti rivolti verso gli altri ma di indole negativa in quanto la persona si sente di essere stata vittima di un sopruso o di un abuso di potere. Anche tali sentimenti scaturiscono dal desiderio della giustizia e che il male fatto possa ritornare a colui che l’ha creato in modo che possa imparare dai suoi errori e capire cosa vuol dire subire. Fosse possibile una tale distribuzione della giustizia il mondo intero sarebbe migliore. Nell’immaginario collettivo il termine compassione è spesso affiancato a quello di saggezza, quella maturità dell’uomo, che non sempre dipende dalla sua età e che gli fa prendere una visione più consapevole, calibrata della vita, che lo porta a vivere in armonia piuttosto che in continua lotta. È stato dimostrato come gli individui si muovano spontaneamente verso altro percepiti come simili a se stessi, non solo evochino più compassione ma, a parità di situazione, inducano i soggetti a mettere in atto comportamenti altruistici rispetto a quelli agiti nei confronti di persone diverse (Valdesolo e De Steno, 2011). Sembrerebbe che la sincronia, indotta da una valutazione di somiglianza, di appartenenza allo stesso gruppo, nazione, cultura, rafforzi una risposta compassionevole nei confronti delle vittime morali favorendo un aumento di comportamenti caritatevoli, concordi con una serie di regole morali. L’essere compassionevole ha un effetto radiante poiché porta ad estendere la gentilezza e il perdono agli altri, anche nei confronti di coloro che hanno trasgredito intenzionalmente (Dalai Lama & Ekman, 2008). L’effetto radiante come tutti i comportamenti umani derivano dall’osservazione e dalla riproduzione spesso inconsapevole delle azioni viste fare da altri, pertanto se sicuramente è compassionevole il primo soggetto che si muove agisce ed interviene non lo è necessariamente quello che segue l’azione del gruppo per mera emulazione. Nella sua accezione più ampia, la compassione è la scorciatoia verso l’altro, verso la sua intimità, la sua anima e le sue profondità remote: quei luoghi in cui nessuno è diverso dall’altro. Paul C. Roud sosteneva che: “Compassione e pietà sono assai differenti. Mentre la compassione riflette l’anelito del cuore a immedesimarsi e soffrire con l’altro, la pietà è una serie controllata di pensieri intesi ad assicurarci il distacco da chi soffre”. E’ interessante notare come, dalla considerazione delle sofferenze altrui, originino due sentimenti così profondamente simili nella modalità dell’espressione e così drammaticamente diversi nella finalità ultima: la compassione ci vuole avvicinare senza paura all’altro in quanto nostra immagine riflessa, la pietà invece ci vuole distanziare dall’altro e dai suoi disagi, vuole esorcizzare l’orrore della sofferenza, che nell’altro è tanto reale da temerne il contagio. E’ facile provare sentimenti di partecipazione affettuosa e viscerale nei confronti dei meno fortunati, di quelli che  – loro malgrado –  sono divenuti portatori della valenza meno bella della vita con il loro carico di dolore, abbandono, miseria, malattia, morte, solitudine: in questo caso la distanza sociale, geografica, culturale è il cuscinetto che permette una partecipazione politically correct, ostentata e “ammortizzata”. Meno facile è comprendere e condividere le ragioni del disagio quando questo si fa meno evidente, meno plateale, in qualche modo troppo vicino al contesto di vita dell’osservatore: è più facile compatire il barbone all’angolo della strada che il collega depresso, la moglie che tradisce, la solitudine che cresce nella vita apparentemente “normale” di ogni giorno che addolora e consuma.    I benefici della compassione – La compassione ha tre componenti principali: Emozionale, è un’emozione che si presenta quando vediamo qualcuno soffrire e genera una forte reazione nel sistema cerebrale collegato al benessere. Cognitiva, comporta prestare attenzione alla sofferenza degli altri, valutarne l’intensità e riflettere sulla nostra capacità di intervenire in modo efficace. Comportamentale, implica impegnarsi in modo consapevole per fare qualcosa per alleviare le sofferenze di quella persona.Connettersi con gli altri in modo significativo aiuta ad avere una migliore salute mentale e fisica e addirittura permette di recuperarsi più velocemente dalle malattie. L’intelligenza compassionevole migliora il nostro benessere psicologico per il semplice fatto che l’atto di dare da più piacere che il ricevere. Uno studio condotto presso il National Institutes of Health ha dimostrato che i “centri del piacere” nel cervello; vale a dire, le parti che si attivano quando proviamo piacere, rispondono sia quando riceviamo denaro che quando lo doniamo in beneficenza. In un altro esperimento condotto presso l’Università della British Columbia, i partecipanti ricevettero una somma di denaro. La metà di loro vennero istruiti a spendere i soldi per se stessi, all’altra metà venne detto di spenderli per gli altri, alla fine, coloro che avevano speso i soldi per gli altri riferirono di sentirsi molto più felici rispetto a coloro che li avevano spesi per se stessi. Un’altra ragione per cui la compassione è così benefica è che crea uno stato di benessere positivo, una serena felicità che ha enormi ripercussioni a livello fisico. Infatti, uno studio condotto presso l’Università della California rivelò che i livelli di infiammazione cellulare delle persone che praticavano la compassione e venivano considerate “molto felici” erano molto bassi. L’infiammazione è un precursore di molte malattie, compreso il cancro e le malattie neurodegenerative. Ma il lato curioso di questo studio consisteva nel fatto che le persone che si consideravano “molto felici” semplicemente e soltanto perché vivevano una “bella vita” in senso pienamente egoistico e carrieristico, il che è legato alla felicità edonistica, avevano livelli di infiammazione più elevati. Ciò indica che non è solo la felicità che ci migliora, ma soprattutto ciò che si conosce come eudaimonia, una parola che deriva dal greco e che erroneamente viene tradotta come felicità, ma in realtà significa pienezza dell’essere. I ricercatori hanno scoperto che le persone con bassi livelli di infiammazione erano coloro che riuscivano a dare un senso alla loro vita, in cui la compassione aveva un ruolo importante.                                                                                        La compassione si può imparare – Richard Davidson, neuro-scienziato presso l’Università del Wisconsin, decise di analizzare gli effetti della compassione nel cervello. Dopo un viaggio in India, dove praticò la meditazione, Davidson incontrò il Dalai Lama, che gli propose di studiare la gentilezza, la tenerezza e la compassione. In uno dei suoi esperimenti, istruì i partecipanti in quella che si conosce come meditazione compassionevole, una antica tecnica buddista che ha lo scopo di promuovere atteggiamenti caritatevoli nei confronti delle persone che soffrono. Nella meditazione, i partecipanti visualizzavano un momento in cui qualcuno aveva sofferto e poi desideravano alleviare le sue sofferenze. I partecipanti praticarono con diversi tipi di persone, iniziando con una persona cara, qualcuno per il quale potevano facilmente provare compassione. Quindi proseguivano con loro stessi e poi con uno sconosciuto. Infine, praticavano la compassione per qualcuno con il quale ebbero un conflitto attivo, una “persona difficile”, come un fastidioso compagno di lavoro. Ad un altro gruppo di persone venne insegnata la tecnica della ristrutturazione cognitiva, in base alla quale i partecipanti dovevano imparare a rivedere i loro pensieri per essere meno negativi. L’esperimento durò solo due settimane, un tempo relativamente breve, quando si tratta di cambiare i sentimenti e apprezzare cambiamenti a livello cerebrale. In seguito, Dadvidson mise alla prova la compassione dei partecipanti chiedendo loro di partecipare ad un gioco altruistico. I partecipanti videro che una delle persone nel gioco aveva dato alla vittima solo 1 dollaro dei 10 che aveva a disposizione. Quindi toccò a loro decidere quanto desideravano apportare del loro proprio denaro. Le persone che erano state addestrate nella meditazione compassionevole furono più propense a condividere i loro soldi per aiutare le vittime, mentre quelle che utilizzarono la ristrutturazione cognitiva mostrarono meno compassione. Ad ogni modo, il dettaglio più interessante fu che durante l’esperimento vennero valutati i cambiamenti a livello cerebrale. Le immagini non lasciavano dubbi: coloro che praticavano la meditazione compassionevole mostravano un aumento dell’attività della corteccia parietale inferiore, una regione coinvolta nell’empatia e la comprensione degli altri. Si riscontrò anche un aumento dell’attività nella corteccia prefrontale dorsolaterale e nel nucleo accumbens, due aree del cervello coinvolte nella regolazione emotiva e le emozioni positive. Ciò significa che la compassione è un’abilità che può essere sviluppata. Per sviluppare la compassione, possiamo iniziare prendendo coscienza di ciò che gli altri hanno fatto per noi, o che noi stessi abbiamo fatto per gli altri. È importante cercare di ricreare le sensazioni e le emozioni che abbiamo provato in entrambi i casi, è inoltre possibile praticare questo esercizio di meditazione compassionevole:  Concentrati sul presente e renditi consapevole delle tue emozioni, sensazioni, sentimenti e pensieri. Pensa a qualcuno che ami e che sta soffrendo. Pensa alle diverse manifestazioni di quella sofferenza, indipendentemente che tu le abbia osservate direttamente o meno. Ricorda che la sofferenza non sempre si manifesta allo stesso modo e, talvolta, la persona può cercare di nasconderla, come nel caso della depressione sorridente. Quindi l’attenzione attiva gioca un ruolo molto importante nello sviluppo della compassione. Pensa a come potresti aiutare quella persona a superare la sua sofferenza. Desideralo con tutto te stesso. È probabile che il tuo corpo reagisca a questa mobilitazione mentale. Mantieni questo pensiero per un momento e concentrati sulle tue sensazioni. Pensa alla tua sofferenza e trasferisci il desiderio di aiutare e migliorare gli altri su te stesso. Questo passaggio ti faciliterà l’auto-compassione, in modo tale che svilupperai un rapporto migliore con te stesso. Puoi ripetere questo esercizio prima con uno sconosciuto e poi con qualcuno che non ti piace, nel qual caso l’esercizio sarà molto liberatorio, perché ti aiuterà anche a liberarti dall’odio e dal rancore. Essere compassionevoli inoltre aumenta la nostra autostima e la capacità di superare situazioni frustranti e stressanti o dolorose, perché alza il nostro livello di sopportazione del dolore e di tolleranza alle frustrazioni, in fondo quando abbiamo visto realtà peggiori della nostra non ci sembrano così brutte se paragonate a chi vive realmente un vero disagio personale o sociale. La compassione è la nostra natura intrinseca e una qualità delle nostre menti. Mira, allo stesso tempo, al raggiungimento della vera felicità che è inerente in ognuno di noi e auspica di porre fine alla confusione per tutti, permettendo così una comprensione corretta del mondo e dei suoi esseri. Attraverso un flusso molto naturale di compassione diamo un significato importante alla vita. Dato che questa qualità compassionevole è innata, non dobbiamo cercare in nessun altro luogo per trovarla: ovunque sia presente una consapevolezza, c’è un seme di compassione. E lo stesso vale per la saggezza; anche un seme di questa è presente ovunque ci sia consapevolezza. La compassione è inseparabile dalla saggezza.                                                               La compassione – la sua espressione che fluisce liberamente e la sua qualità – è così significativa perché senza di essa non saremmo in grado di vivere pienamente le nostre vite, senza di essa riusciremmo solo a sperimentare una pace fragile e condizionata. E’ a causa della compassione, che dà luogo a una reale comprensione, che possiamo trovare pace e felicità incondizionate, e a livello ultimo la liberazione. Per avvicinarci a questo, il Buddha ci ha insegnato a coltivare più compassione in noi stessi, nei confronti gli uni degli altri e verso il mondo, sulla base del riconoscimento che l’aspirazione e la motivazione di volere la felicità (e di non volere l’infelicità) sono profondamente radicate in ognuno di noi. Se usiamo questa comprensione per connetterci gli uni agli altri, possiamo creare il fondamento per sviluppare e incrementare la cosa più essenziale nelle nostre vite: la compassione. Seminando in ogni momento che passa semi di comprensione compassionevole, riusciamo a sopraffare svariati tipi di confusione senza grande sforzo. Gli impedimenti vengono facilmente evitati e avanziamo al sicuro lungo il cammino della virtù, usando in modo grandioso questa preziosa e fragile esistenza umana. Per esempio, se ci troviamo in mezzo agli ostacoli, il fatto di concentrarci sui nostri auspici più profondi ci aiuterà a superare le sfide mentali e fisiche che si presentano. Dovremmo ricordare a noi stessi che questo sviluppo della compassione può essere realizzato senza molto lavoro duro: possiamo farlo stando seduti, camminando, o persino dormendo. Applicandoci in questo modo, possiamo utilizzare ogni momento libero per coltivare la compassione, anche all’interno di questo mondo fisico limitato. Il ruolo della famiglia nello sviluppo della compassione – Dal mio punto di vista, credo che la famiglia – si tratti dei nostri parenti stretti o di altre forme di famiglia – rappresenti l’ambiente ideale per iniziare a generare compassione. Indipendentemente dal nostro background culturale o status sociale, infatti, la famiglia è il terreno più fertile in cui coltivare il nostro seme inerente di compassione affinché prosperi. Non può crescere senza questo terreno produttivo che è la famiglia; lo scopo stesso del suolo fertile è far sì che i semi si sviluppino e diventino una pianta pienamente manifestata e in salute. Così, l’incremento della nostra compassione innata è intimamente e in modo interdipendente connesso al terreno fruttifero delle nostre famiglie. E’ vero che i buddha e i bodhisattva consigliano ai praticanti di abbandonare l’attaccamento, e in particolare quello nei confronti della famiglia: l’attaccamento, infatti, non è intrinseco, è compassione fuorviata. Per una mente che non osserva, potrebbe sembrare che l’attaccamento consista nel ricercare la stessa cosa della compassione. Tuttavia, una mente attenta scoprirebbe che l’attaccamento ha sempre dei progetti egoistici, mentre la compassione cerca una premura incondizionata non solo per se stessi, ma anche per gli altri. Mentre il praticante diventa gradualmente consapevole di questa verità fondamentale, la mente valuta una data situazione ed evita accortamente di sviluppare tutte le forme di attaccamento. Per esempio, stando alla larga da condizioni esterne come la famiglia per paura di recare danno, poiché l’attaccamento non nuoce solo a noi, ma anche agli altri. Nel momento in cui la mente vince l’attaccamento, tuttavia, capiamo che c’è sempre meno bisogno di scansare simili condizioni esteriori, e riusciamo quindi a vedere come la nostra famiglia sia davvero il terreno ideale e produttivo per coltivare la compassione. Naturalmente, possiamo cercare di trovare altre terre o suoli – cioè altre famiglie -, ma il terreno o la famiglia a cui finora siamo già stati legati è di gran lunga quello più fertile. Ed è tale perché sperimenteremo il manifestarsi di una sollecitudine naturale gli uni per gli altri; ogni membro della famiglia ci guiderà e ci insegnerà in un modo tutto suo. Pertanto, nonostante il seme della compassione sia inerente dentro ognuno di noi, per svilupparla in noi stessi e nel mondo che abbiamo attorno per prima cosa abbiamo bisogno di un suolo fertile, cioè la nostra famiglia. E’ responsabilità di tutti noi trovare il coraggio per coltivare la compassione, libera da attaccamento, e ricercare la premura incondizionata per tutti gli esseri senzienti. (XVII Karmapa Trinley Thaye Dorje)