FESTEN, IL GIOCO DELLA VERITÀ ovvero catarsi a teatro

di Thomas VINTERBERG, Mogens Rukov & BO Hr. Hansen

 Fa bene il regista Lorenzi a citare Woyzech di Bùchner: “Ogni uomo è un abisso…” potremmo aggiungere: ogni uomo ha un abisso da risolvere, laddove dantescamente dovrebbe: morire e rinascere. Lo spettacolo teatrale la cui drammaturgia è tratta dal film di Thomas Vinterberg premiato a Cannes nel 1998, è uno spettacolo che rappresenta una festa del sessantesimo compleanno di un patriarca danese, nella sua ampia e lussuosa dimora. Alla festa di questo compleanno partecipano i suoi figli, la sua moglie, i suoi servitori con tanto di maestro di cerimonie, poi altri ospiti secondari, e il fantasma della figlia, non per caso. Si scopre che ci sono due piani drammatici che vanno a convivere fra di loro e si raddoppiano con le scelte dello schermo film live, che si fa azione viva. Nel tempo scenico si inizia con l’aspetto festaiolo, che funge da contenitore, procedendo prevale sempre più l’aspetto drammatico che fa da contenuto. L’ aspetto maschera – formale finto, fa da detonatore per far esplodere il dramma. Il marcio che cova dentro la famiglia trabocca: tutte le perversioni sessuali a cui si è lasciato andare il patriarca, esercitando un potere di stupro e di violenza sessuale sui figli fino alla morte, escono dirompenti con fragore. Diremmo un karma profondamente oscuro, un magma quasi demoniaco, infernale della borghesia prende forma. Una denuncia alla finzione borghese chiara. Cosicché anche quelle pennellate di tentativo ironico qua e là appartenenti al contenitore, battute comico – grottesche, sono preludio, grimaldello introduttivo al dramma che verrà. Qui c’è assenza di sentimenti alti, non possono esserci perché la borghesia ha la ricchezza del denaro materico e non c’è spazio per amore, verità. Finzione e amore non legano. Il primogenito è allora il chirurgo, il cerimoniere della catarsi. Qui la verità è lo sfogo catartico ad una repressione, ad un lager di stupri, risposta alla impossibilità di vita una non vissuta, dovuta a una violenza fisica predominante. Dal buio pozzo della forma imposta, del gioco delle parti-finzioni recitate nella vita, non si può vedere la verità. Quando la monnezza interiore arriva al colmo, non può che traboccare in maniera incontrollabile travolgendo il patto borghese (qui il patriarca non a caso si vuole massone) è il viaggio scenico verso lo spurgo anche attorale. La vita tende al caos solo in apparenza, in realtà cerca gli equilibri, armonie, luce. Questo umore nero sbocca nella violenza non nella compassione, sfocia nella rabbia dello scontro generazionale. Il padre che viene preso a calci dal figlio è un atto che ha colori simili alla violenza sessuale subita. Si sa che nella cultura della borghesia medio alta, o alta che sia, c’è sempre la forma e l’apparenza da preservare, il coperchio da custodire ad ogni costo, i lati oscuri si lasciano nascosti, i drammi di Pirandello, Lorca e Shakespeare… docet. Si fa bene qui a citare-evocare l’Amleto shakespeariano. Anche le voci di risposta alle violenze paterno – patriarcali con questo scalpitio violento di urla, duplicano la violenza paterna nei colori drammatici. Nelle fattezze delle due generazioni non c’è cambio di intensità e di colori, ma rimane lo stesso tono, però la seconda generazione ha il compito di frantumare gli schemi, giungiere alla catarsi. Sul piano drammaturgico si innestano bene le geniali intuizioni registiche, utilizzando schermo da cinema e microfoni, che ingigantiscono volti e voci grottescamente, particolarità espressive, sottolineando la drammaticità delle maschere borghesi. Il piano in cui si scopa via ciò che è rimasto nascosto è davanti allo schermo, che divide ricerca di verità e finzione. Rompere gli schemi di una cultura della finzione, che prevede che il dramma sommerso debba rimanere tale per sempre, è la chiave che fa scaturire i colpi di scena a sequenza che si moltiplicano. La scena è tutta nera come molti costumi, un’unica parete con una porta, è bianca non a caso. La scelta del bianco e nero è simbolica e tipica di situazioni contenenti emozioni discordanti e drammatiche. Fa bene il regista a mettere la porta bianca, verso la luce, raggiungendo il meglio del piano intuitivo, quando da un lato si vede una figura a livello di teatro e dall’altro si vede l’altra figura sullo schermo. Le voci, gli stridori delle musiche della chitarra dal vivo, le canzoni sono ben armonizzate a coro. La battuta chiave del patriarca di cui il giorno del suo compleanno si consuma invece il suo processo catarsi si trova dicendo: “per questo voi siete fatti” è la motivazione, giustificante le azioni. In altre parole: io domino nazisticamente e voi siete sempre sottomessi, questo è. Si apre il portale, una sorta di terremoto, di gioco degli specchi, lo rompi uno e si rompono tutti. Si fa riferimento alla Maya e dal suo velo illusorio sempre presente. Quante vite dovranno impiegare queste anime reincarnandosi per spurgare un karma così pesante? In quante realtà vissute simili, la borghesia con i sui principi, soffoca la verità? Lo spettacolo già ampiamente rodato per alcuni anni, viaggia nei suoi ritmi incalzanti e frenetici, alla ricerca delle pause drammatiche che non tardano a portare il pubblico in spazi s-coinvolgenti. La magia del teatro dal vivo vince ancora, e questi contenuti nel mondo del dio denaro hanno maggior senso. Gli schermi sono quelli del potere che si manifesta in varie maniere, per esercitare la sua egemonia nella famiglia e sulle persone. Una volta vissuto questo dramma il festeggiato-accusato, colpito da tutte le sue infamità commesse come un effetto boomerang, potrà nel tempo riflettere e forse risolvere con la cenere in testa, o bruciare all’inferno per sempre. Anche tutti i personaggi: i tre figli, la moglie ed i partecipanti, potranno chiedersi perché la loro vita ha avuto a che fare con queste violenze e quale sia il suo senso. Il futuro sarà oltre la notte senza luna, perché il tempo a venire si costruisce con la luce, unica entità che illumina il cammino, forse ora tutti faranno tesoro dagli errori. La catarsi è rito sacrale, passa dalla finzione alla verità della vita non si ferma, dilaga, fintanto non ha purificato tutti i piani. Il fine della verità, Satya Yuga, è venire a galla, dare una possibilità, permette alle anime di non rimanere avvinghiate nel limbo. Le entità immortali sono fatte per ricongiungersi alla bolla di amore suprema.  (Chi scrive, queste vicende lo hanno toccato nella vita, anche se riguardava una sola persona che aveva subito violenza. I protagonisti dei fatti sono tutti morti e tutto è rimasto inalterato, ha prevalso la finzione. Come è andata a finire? La casa è rimasta “vuota”). Scusate la digressione che Fersten mi ha provocato, torno alla normalità: applausi meritati e non formali per: Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi e (in o. a.) Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Carolina Leporatti, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca. Giustamente il tour continua nel suo Gioco catartico di Verità.