Carmelo Bene tra realtà e finzione

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Cosa fa Carmelo Bene che tipo di operazione compie su di se e sulla propria “arte”? Bene annulla il teatro lo svuota di tutta la teatralità attorale, registica, scenica, interpretativa, quindi storica, lo rende anche noioso, voluto provocante. Lo restituisce coraggiosamente immolandolo sull’altare del sacrificio della ricerca pura ma fine a se stessa come atto finale unico possibile, impossibile, estremo. E’ un teatro che non recita più: dice parole nude, spellate, squartate. E’ uno spazio tempo che esplode perché evoca tutto ciò che non ha, che vive della negazione di se, urlante al mondo. Cosa urla? Il suo no agli uomini. Negarsi davanti alla scena corrisponde ad innalzarsi, San Francesco si innalza a Dio divenendo povero al mondo, spogliandosi della ricchezza terrena, mortale. Se togli sali. Ma dove finisce allora la teatralità e tutto il suo bagaglio negato? Non è che Bene non reciti più e non usi più la teatralità, lo fa eccome, lo fa doppiamente. Il rito avviene in un altro palcoscenico, atto geniale ed unico, lui piomba precipita sul palco della vita finta delle immagini. Ha capito che il vero palcoscenico della finzione non è più il teatro ma la vita divenuta falsa, da mostrare, costruita, televisiva. Lo spazio tempo del teatro non incide la vita si. La vita della finzione doppiamente finta dove tutto è irrealtà. Urla recitando la scena di un personaggio della tragedia greca, shakespeariano, è la summa dei personaggi tragico – comici del teatro assemblati insieme. Tuona dalla letteratura classica, piomba urlante, dall’alto delle citazioni. E’ Tiresia, Macbeth, Pinocchio, Leopardi, letteratura, è tutte le parole dette e da dire, è se stesso al momento che si annulla nel nulla, in uno spazio tempo senza spazio atemporale. Si annulla di se scenicamente divenendo personaggio nella vita, riporta il teatro nel palcoscenico della vita. Fa il percorso “opposto” a Pirandello dei personaggi in cerca di autore, qui è l’autore che mette nella sua vita se personaggio. Lo spazio ideale è quindi il dialogo monologante, che avviene con persone fatte di se, che riportano loro stesse e lui che recita, si recita, come in uno specchio riflettente, urlando in faccia la verità. Ma quale verità recita, quale verità è recitabile? La verità è ciò che lui conosce, la sua esperienza, la sua conoscenza del mondo, attraverso la parola emozione reinventata, che dialoga, che pro – impone. Nello spazio della finzione si può dire la verità, ma se questo diviene la vita ci andiamo. La “verità” tipica della televisione dove lui ha ragione, anzi una non ragione, gli altri (non)torto. Ma gli altri non capiscono sono zombie, morti che si dibattono, mentre lui vive di tragicità classica, alimentato nella negazione dallo spazio tragico dell’essere e del non essere. L’attore artista pittorico dove il quadro è se stesso auto incorniciatosi, auto crocifisso ed inchiodatosi da solo ad un tempo. Ha capito che la mente umana deve essere sempre sorpresa solo così sarà divertita, annullerà il pensiero annoiante noioso pensante. La sorpresa la si può rendere solo nell’improvvisare un testo, che nel momento che viene detto, recitato viene poi scritto. La parola è primaria, poi scrittura registrata. Prende quindi forza nel dialogo chi dialoga da un palcoscenico, da protagonista che non ha ma si fa verità, che ascende a Dio e all’assoluto, negando la vita ed ogni sua sostanza, che disconosce non riconosce più, è ceco vedendo, è doppiamente umano secondo la legge dei contrari. Nel mondo del dritto e del suo contrario è in equilibrio sulla corda funambolica del tempo, ciò che è che e che non è, il suo mondo. Finzione e realtà sono un impasto cucito a maglia, gomitolo in un golf della vita fatto di dritto e rovescio dove si barcamena. La parola qui si può reinventare ogni momento si plasma, come morbida creta sotto la pressione delle dita, diviene dipinta con un pennello, ogni attimo sorprende se stessa scoprendo nuove forme. È quindi lo spazio tempo dove tutto e niente avviene nel contempo, ma il rito teatro si. Tutto si alimenta di se e del suo contrario. È la vita che vive unita quindi di tutto ciò che contiene, l’unione in se. Carmelo Bene non lo dice e lo nega, ma dentro c’è tutto, nel neutralizzare i colori si vengono tutti a contenere nella loro vibrazione. Ecco l’operazione che rimane ancora oggi coraggiosa e geniale, parla all’umanità da visionario tragico. L’umanità che ha bisogno da sempre che qualcuno gli sputi in faccia la verità, che gli strappi le maschere per rendere il volto nudo, l’umanità che si sporca di finzione, l’umanità che tutto confonde ha bisogno di chiarezza, lavandosi nelle acque della parola citata risuscita. Carmelo Bene tutt’oggi medicina, purga, antidoto contro il cancro della menzogna moderata, della falsità velenosa dei palazzi del potere.

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